mercoledì 29 dicembre 2010

Fine d'anno 1899 , 1 gennaio 1900:diario di un archivista.



Dal diario comunale di Santarcangelo di Romagna, redatto dal protocollista Elia Gallavotti , riportiamo queste note :riguardano la conclusione del lontano anno 1899 e il primo giorno del nuovo anno 1900.

_ Conclusione dell’ultimo anno del secolo XIX_
Il 1899 che sta’ per finire ,si può annoverare per prodotti agricoli fra le annualità non straordinarie, ma discretamente buone , giacchè il raccolto del grano in questi luoghi è stato più abbondante che scarso, e così pure il granturco massime nelle vicine colline .
Tutti gli altri piccoli prodotti come fagioli,ceci ecc. sono stati la maggior parte discreti.
Il raccolto poi dell’uva è stato più abbondante dell’anno scorso ,e di qualità assai migliore perché tutti i malanni che fan guerra alla vite sono stati combattuti con esito favorevole.
La caccia in generale è stata meschinissima tanto pei volatili di bosco come quelli di palude. In questi luoghi non vi è ormai più bisogno di proibirla in certe epoche ,giacchè colla totale mancanza dei volatili, viene proibita da se stessa.
Questo comunale territorio ha sofferto qualche danno in alcune frazioni per grandine e vento assai furioso, ma allontanandosi da questo centro la grandine di forza maggiore ha dato danni enormi , con qualche vittima per fulmini.
Allontanandosi anche di più, le disgrazie sono state assai frequenti e terribili,come per esempio frane che han massacrato villaggi con diverse vittime , inondazioni fatali con danni immensi, incendi colla scomparsa di molte abitazioni con danni incalcolabili, insomma i quattro elementi hanno furiosamente signoreggiato in quest’anno lasciando in diversi luoghi deplorabile memoria.

_1 gennaio 1900,del così detto Anno Santo _
A mezzanotte del 1 gennaio del nuovo Secolo XX in questa Chiesa maggiore fu celebrata Messa solenne con musica, come primo segnale dell’Anno Santo ricco di indulgenze riguardanti l’annunciato Giubileo.
La popolazione ivi accorsa fu immensa, e sentendo che il Papa concede indulgenza plenaria a tutti i peccati col semplice obbligo di alcune visite alle Chiese e di accostarsi al confessionale, certamente in questo anno la Chiesa avrà una clientela d’avventori assai numerosa…..Quanta superstizione esiste ancora!.....

domenica 26 dicembre 2010

Le dodici notti di "tempo fuori dal tempo".



Nel bagaglio tradizionale di molti popoli,il tempo che intercorre da Natale all’Epifania è un tempo “fuori dal tempo”, in quanto queste dodici notti sono “di passaggio “ da un anno all’altro e quindi non appartengono né a un anno ne’ all’altro.
Il periodo del Capodanno è considerato un periodo magico, nel quale, approfittando del “buco nel tempo”si dice che le anime dei morti ritornino tra i vivi:bisogna perciò accoglierli bene, in quanto i nostri antenati sovrintendono , secondo antiche tradizioni contadine, alla fertilità e alla fecondità dei raccolti.
Le anime dei morti però incutono timore e sovente ,per propiziarseli, venivano eseguiti in quelle notti diversi riti di accoglienza come lasciare loro la tavola imbandita, o preparare davanti al camino un catino con acqua e un asciugamano per potersi lavare, o accendere per loro un bel fuoco nell’”aròla “della cucina.
L’ultima notte, quella dell’Epifania, era il momento in cui il “tempo magico” si chiudeva e ci sono, nel folklore di diverse zone, varie pratiche tese ad assicurarsi che tutte le anime dei morti fossero tornate alla propria dimora sotterranea.
In certi paesi del Modenese ,ad esempio, subito dopo la mezzanotte dell’Epifania, (chiusura delle dodici notti), il parroco si recava ai crocicchi, munito di aspersorio e acquasanta ,per cacciare le “streghe” e gli spiriti dei morti dai confini della parrocchia.
Gli stessi fuochi accesi nelle campagne la vigilia dell’Epifania o in quelli immediatamente seguenti, rappresentavano un auspicato ritorno alla normalità, con “la cacciata dei ritardatari o dei restii nelle loro sedi sotterranee".
Oltre a queste credenze ,durante i dodici giorni a cavallo del Capodanno si poteva prevedere lo stato del tempo dell’anno nuovo.
Osservando le condizioni meteorologiche dei dodici giorni , a ciascuno di questi si fanno corrispondere i dodici mesi:se la giornata è bella, anche il mese corrispondente sarà contrassegnato da tempo sereno e viceversa.
Religione e superstizione ,come vediamo,convivono da sempre…..

giovedì 23 dicembre 2010

Auguri di buon Natale.



Da Grazia e Giovanna un caro augurio di Buone Feste a tutti i nostri amici e a tutti quelli che ci hanno fatto compagnia nel nostro primo anno di blog.

mercoledì 22 dicembre 2010

Natale nella campagna appena ieri.


Natale è una festività che anche una volta in campagna si è sempre cercato di rispettare con tutti i doveri cattolici e tradizionali.
Anche le famiglie più povere cercavano ,per quanto possibile,di rimediare un buon pranzo ,un ceppo per il camino ,“e’ zòc ad Nadèl”,e qualche dolce per i bambini di casa.
I giorni precedenti il Natale nelle famiglie contadine si faceva un po’ di ordine in casa, si cambiavano le lenzuola, uomini e bambini si tagliavano i capelli , (lavoro che di solito faceva una donna di casa , mia nonna per esempio era molto brava, a noi nipoti ha tagliato i capelli finchè non siamo andati a scuola) e si facevano le pulizie personali.
Molti, soprattutto gli anziani, facevano il bagno per Natale e poi per Pasqua, ma anche gli altri di famiglia non è che lo facessero molto più spesso,soprattutto l’inverno.
Scaldavano l’acqua nel paiolo sul fuoco del camino e la trasportavano nella mastella del bucato nella stalla: si lavavano lì,spesso più di uno nella stessa acqua, dato che era il luogo più caldo della casa.
In molte famiglie contadine il mattino della vigilia facevano il pane e la tradizionale ciambella che i più ricchi arricchivano con uva passa o noci e poi preparavano baccalà o cefali o “buratelli”per la sera ,o qualche piatto di magro come i cardi in umido, perché nessuno ,anche chi non era particolarmente rispettoso della religione , si sarebbe sognato di non onorare la vigilia.
Il pranzo di Natale ,nella campagna di una volta ,era per i più abbastanza modesto ; consisteva principalmente di gallina in brodo e tagliolini e solo per chi poteva permetterselo cappone,pasta ripiena o pasta al forno, ma c’era anche chi doveva accontentarsi di molto meno…..soprattutto per”casanti ”e braccianti che d’inverno andavano avanti di polenta e fagioli perché lavoravano poco e dovevano tirare la cinghia.
Il pomeriggio e la sera lo passavano in compagnia di amici e parenti a giocare a carte o a mangiare brustolini, ed era festa grande se c’erano castagne arrosto con un bicchiere di vino o meglio vin brulè che scaldava e faceva allegria.
Il Natale di una volta, fino agli anni a cavallo della Seconda Guerra,era un Natale senza albero, senza presepe , senza addobbi e senza regali, un giorno di festa come lo poteva essere una festa parrocchiale, con forse qualcosa in più in tavola e magari un bracciatello o un’arancia o un mandarino per i bambini, frutto allora quasi sconosciuto in campagna.
Già la cena della sera rientrava nella normalità di tutti i giorni , le donne non lasciavano per molto la rocca e filavano anche quel giorno fino a tardi , perché come dice un proverbio: “ Chi di Nadel non fila, di carnavèl suspira” , cioè chi ha tempo, non aspetti tempo, festa o non festa che sia.

domenica 19 dicembre 2010

il ceppo di Natale.


In gran parte dell’Italia settentrionale vi era ,e forse vi è ancora, l’antica usanza del ceppo natalizio, ma come questa tradizione sia nata, nessuno lo sa con certezza.
Sappiamo che il fuoco acceso nei giorni del solstizio invernale rappresentava per gli uomini una pratica per ingraziarsi e rinforzare il sole stesso; oppure veniva acceso come sistema difensivo nel periodo delle “dodici notti” ,da Natale all’Epifania, quando i morti, approfittando del passaggio da un anno all’altro, in un” tempo fuori del tempo”,tornavano nella dimensione terrena…..
Poi, come accomodamento, viste le diverse condanne ecclesiastiche contro l’uso del ceppo e lo spargimento dei suoi resti e della cenere nei campi , venne interpretato nella cultura cattolica popolare come rimedio per scaldare Gesù Bambino appena nato.
Il ceppo ,prima di tutto, doveva essere il più grosso possibile perché doveva ardere a lungo , almeno dalla vigilia al giorno dopo Natale, per alcuni meglio addirittura senza interruzione fino all’Epifania.
Mentre il ceppo bruciava, la donna anziana di casa doveva battere le braci per sollevarne numerose faville e propiziare così alla faniglia fortuna e abbondanza dei raccolti.
I resti carbonizzati del ceppo venivano sparsi sulla terra dei vigneti il giorno stesso di Natale e anche sul tetto della casa e della stalla per proteggersi da tempeste ,fulmini e fuoco in generale.
Qualsiasi interpretazione si voglia dare del ceppo natalizio, essa conduce al potere purificatore del fuoco, del sole e della luce: la luce solare è stata sempre considerata come potente avversaria della malattia, dei malefici e dell’infestazione e il fuoco di un grande ceppo, nel periodo solstiziale, era forse lo strumento per evocare tutto questo.

giovedì 16 dicembre 2010

Lo Squacquerone di Romagna.


Lo “Squacquerone di Romagna”, detto anche squacquero o squacquarone, è un formaggio tipico romagnolo dalle origini molto antiche.
Il nome ha origine dalla parola dialettale “ squaquaròn” che indica l’elevata acquosità di questo formaggio che essendo molto molle tende ad assumere la forma del recipiente in cui viene messo.
Estremamente morbido,(è composto per il 60per cento di acqua) senza crosta, è un formaggio facilmente spalmabile (uno degli ingredienti preferiti per farcire la piada), e va consumato entro pochissimi giorni dalla sua produzione.
In passato era consuetudine produrlo e quindi consumarlo solo durante l’inverno proprio grazie alla maggiore possibilità di conservarlo per alcuni giorni.
Oggi invece è prodotto tutto l’anno da latte vaccino intero,del quale mantiene il sapore leggermente acidulato e si trova nelle latterie, nei negozi di gastronomia e nei supermercati in qualsiasi stagione.
Nonostante fosse in origine un prodotto di stampo campagnolo, lo Squacquerone piaceva ed era apprezzato anche dai palati più raffinati, e molti Romagnoli illustri che nel tempo ,per mestiere o professione erano costretti ad abitare lontani, cercavano di farselo inviare ogni tanto per ricordare in questo modo uno dei sapori della loro terra.

mercoledì 15 dicembre 2010

La cucina dell'azdòra dal lunedì al sabato.



La cucina contadina tradizionale Romagnola ,che oggi tutti conoscono e che riempie libri e trattati di cucina, non è altro che la raccolta dei cibi delle feste, che solo in quei giorni si mangiava la carne arrosto, o la gallina in brodo, o la pasta al forno, o i cappelletti o il prosciutto e la ciambella.
Del cibo di tutti i giorni poco sappiamo se non quello che ci raccontano i nostri nonni che non fanno altro se non rammentarci la grande miseria e la grande fame che non li abbandonava mai.
Della cucina Romagnola feriale, “d’indè” , come si dice nel nostro dialetto,ne parla e ne descrive le caratteristiche Grazia Bravetti Magnoni ( l’ideatrice di questo blog), nel suo libro “ La cucina dell’arzdora”, ora giunto alla V edizione .
La cucina feriale contadina, scrive Grazia,era abbondante solo nei periodi dei grandi lavori, del raccolto e della battitura del grano e della vendemmia , quando il lavoro era pesante e si faticava da “un buio all’altro”, negli altri periodi tutto diventava di pura sopravvivenza.
D’inverno , soprattutto da novembre a febbraio, le famiglie che consumavano tre pasti al giorno si potevano contare, perché quasi la totalità dei contadini e dei braccianti si riuniva a tavola solo al mattino tra le 9 e le 10 per la colazione e verso sera , alle 5, per cenare.
Il più delle volte per colazione l’arzdòra metteva in tavola la polenta, condita con cipolla e pancetta o con sugo di fagioli ed era già una bella mangiata, perché a volte c’era solo pane secco ,che gli uomini ammollavano nel vino allungato con l’acqua,con una fetta di pancetta o un pezzetto di aringa affumicata ad insaporire verze o cavoli.
Se invece passava per le case la pescivendola con la sua cassetta del pesce legata alla bicicletta, si potevano comprare ogni tanto”poverazze” o “murscioni” o “saraghine”per poco o preferibilmente in cambio di qualche uovo .
La cena poteva essere più varia ma raramente più abbondante ed era sempre piatto unico: fagioli “schietti” nei quali inzuppare il pane o la piada, radicchi e cipolla, verze con dei pezzetti di salsiccia, patate in umido, maltagliati con ceci o con i fagioli ,“lunghèt” e “zavardòuni”senza uova” , poche fettine di formaggio con la piadina, erbe di campagna o baccalà che era già un lusso.
Il pane si cuoceva una volta alla settimana o anche due e in molte famiglie era conservato sotto chiave, le uova si consumavano raramente, perlopiù servivano da vendere o da barattare in cambio di sapone, olio o zucchero per la famiglia, e anche la carne del maiale veniva conservata e razionata con attenzione .
Solo per le feste e nei periodi di raccolto sulle tavole appariva la gallina in brodo, il prosciutto, le tagliatelle all’uovo o il coniglio arrosto.
Per il resto,e fino agli anni cinquanta, era sostanzialmente un regime alimentare povero tutto basato sulla pura sussistenza e su una stretta economia.

venerdì 10 dicembre 2010

" E' RUMAGNUL " di Aldo Spallicci.




E Rumagnùl , di Aldo Spallicci.

E’ Signor, fat e’ mond,e’va un po in zir
E cun San Pir e’ passa do parol;
e intant ch’j è int una presa,u i fa San Pir:
“La Rumagna t’lè fata e e’ rumagnùl?

Ui vo dla zenta sora a sti cantìr,
t’a n’vrè zà fè la mama senza e’ fiul”?
“ Me a t’e’ farò, mo l’ha dal bròt manir
e a j ho fed ch’u n’gni azova gnianca al scòl”.

E’ daset ad chelz par tèra cun un pè
E e’ faset saltè fura ilè d’impèt
E’ vigliacaz de’ rumagnul spudè.

In mang ad camisa , svidurè int e’ pèt,
un caplìn rudè com un fatòr;
“ A so qua mè, ciò, boia ded’ S…..!”


Il romagnolo.
Il Signore ,fatto il mondo,va un po in giro /e con San Pietro scambia due parole,/e mentre sono in un podere ,gli fa San Pietro:/ “La Romagna l’hai fatta,e il romagnolo?/Ci vuol gente sopra questi campi ,/ non vorrai mica fare la mamma senza il figlio?”/”Io te lo farò, ma ha brutte maniere,/ e credo che non gli giova nemmeno la scuola”./Dette un calcio per terra con un piede / e fece uscir fuori lì dirimpetto / il vigliaccaccio del romagnolo sputato/.In maniche di camicia, sbottonato sul petto/,un cappellaccio a ruota come un fattore/, : “Sono qua io, allora, boia del S….!

martedì 7 dicembre 2010

Le veglie "nella campagna appena ieri."......


In Romagna, le veglie invernali si tenevano di solito nelle stalle, il luogo più caldo della casa, grazie al fiato delle bestie che erano quasi sempre parecchie ,dato che servivano per i lavori di traino e di aratura.
Dopo cena la famiglia vi si trasferiva al completo e spesso si univa loro qualche vicino o qualche giovanotto che faceva la corte alle ragazze di casa.
Ma anche durante la veglia, a meno che non fosse festa, i contadini non stavano mai con le mani in mano, c’era sempre qualcosa da fare.
C’era chi aggiustava gli attrezzi, chi intrecciava cesti di vimini, chi faceva le scope con i rami di saggina, chi sgranava le pannocchie,chi preparava le trappole per gli uccelli da mettere presso i pagliai nell’aia il giorno dopo…..tanti erano i piccoli lavori di tutti i giorni.
Ma più di tutti lavoravano le donne che con l’inizio dell’inverno avevano rimontato il telaio e ripreso il lavoro della filatura e della tessitura , senza contare il lavoro ai ferri per le calze e le maglie di tutta la famiglia che di certo una volta non si compravano nei negozi come ora.
Ma mentre le mani erano occupate in cento cose, fiorivano i racconti e le storie più o meno fantasiose sui fatti recenti o passati relativi alla comunità , ai ricordi, agli avvenimenti di guerra o semplicemente ispirati a favole o a storie di paura che incantavano soprattutto i più piccoli.
Nel libricino del comune di Poggio Berni“ Quando d’inverno faceva la neve”, Federica Foschi ha raccolto una serie di gustose testimonianze su questi racconti che hanno come protagonisti folletti, fantasmi, stregoni e perfino draghi.
Tanti una volta erano i luoghi dove si diceva che“ci si vedeva” o “ci si sentiva”,specialmente di notte lungo strade fiancheggiate da grandi siepi, in palazzi disabitati o nei pressi di mulini ,ponti e conventi…..
Perché in campagna una volta le notti erano veramente buie, di un buio che oggi non possiamo nemmeno immaginare , e anche con la luna, chi si trovava a dover viaggiare dopo il tramonto lo faceva sempre con passo svelto e attento ad ogni rumore, che anche il rumore dei propri passi poteva dare l’impressione di essere seguiti e di avere a che fare con un fantasma o un’anima in pena.
Così nascevano i racconti di paura che , un po’ veri e un po’ inventati , si raccontavano un inverno dopo l’altro nelle veglie quando ancora non esistevano radio e televisione.

venerdì 3 dicembre 2010

Il "Pataca "romagnolo.


Nel dialetto romagnolo “Pataca” è una parola più complessa e ricca di sfumature di quanto non sia negli altri dialetti o parlate varie.
E’ parola usata soprattutto nell’Italia centrale e definisce le seguenti accezioni:
_ patacca come moneta falsa o di poco valore,
_ patacca come macchia sugli abiti ,
_ patacca per definire persone inette o sciocche.
In Romagna la parola perde una c e diventa “pataca”, ma acquista un più sottile e particolare significato.
Pataca è si insulto , ma,per lo più, spesso affettuoso, che di solito indica uno che si dà delle arie, che vanta qualità che non possiede, che la dà ad intendere , che racconta storie , che si prende troppo sul serio.
“ Nu fa e’ pataca”; “t’ci ste un gran pataca “; l’ha fat una figheura da pataca”; “e’ dventa sempra piò pataca”; “lasa andè ad fe’ e’ pataca”; “ mo e’ dventa sempra piò pataca”….….sono solo alcuni dei modi di dire più usati .
Il pataca in fondo è uno incline all’esibizionismo, uno che cerca il consenso e l’applauso, e le pataccate “ al patachèdi “ sono la conseguenza del bisogno di essere considerato,di essere al centro delle attenzioni ,anche a costo di esagerare.

domenica 28 novembre 2010


Cari amici del blog, vi faccio una proposta di cena conviviale con un menu ispirato ai mangiari romagnoli contadini di tutti i giorni, raccolti nel mio libro "la cucina dell'arzdora" in occasione della V ristampa (Editore Panozzo di Rimini). Tutti dunque il 17 dicembre alle 19,30 al "Ristorante 2020" di San Mauro Pascoli, via Roma, 23.Info:Giovanna 0541-930335 / Grazia 0541-786-786091. Menu: Coppa di testa e salsiccia stagionata - Triangoli di frittata con cipolla e pancetta - Erbe miste e verza all'aglio - Formaggio bazzotto - Piada romagnola. Strozzapreti o lunghet dell'arzdora - Minestra di maltagliati e ceci - Ciambella - Uva e noci - Sangiovese cagnina e caffè. euro 20.00 Il libro verrà presentato dal Sindaco di San Mauro Pascoli dottor Miro Gori e sarà presente oltre l'editore Panozzo lo scrittore , enogastronomo professor Piero Meldini che a suo tempo ha curato la prefazione del libro.

Le notti buie di Sant'Andrea.



Secondo le antiche tradizioni, le notti del 28, 29 e 30 novembre erano considerate le più scure dell’anno, e chiamate anche “i bur ad’Sant’Andrè” i “bui “di Sant’Andrea, che cade appunto il 30 novembre.
Il riferimento è dovuto forse al fatto che i giorni si accorciano sempre più visibilmente : il solstizio invernale è vicino e lo era ancor più prima della riforma del calendario gregoriano.
Resta però difficile spiegare perché queste notti ,che non sono e non sono mai state le più lunghe dell’anno,vengano considerate le più buie.
Forse in virtù del concetto tradizionale che concentrava negli ultimi tre giorni del mese alcune valenze appariscenti del mese stesso.
Così come gli ultimi tre giorni di gennaio , detti “giorni della merla” sono considerati i più freddi, e gli ultimi giorni di marzo “I giorni imprestati” , rappresentano i più aspri meteorologicamente, gli ultimi di novembre sono indicati come i più bui.
Senza contare che un valido motivo può essere che in questo periodo il tempo è particolarmente brutto e nuvoloso e i giorni stessi sono così grigi e scuri che la notte sembra più lunga chi come è in realtà.
In proposito a ciò, dice un antico proverbio romagnolo:
“ Int i bur ad Sant’Andrè, o luna o lanterna ,se t’at vù sicurè e’ pè” ( nelle notti buie di Sant’Andrea, o luna o lanterna, se vuoi posare sicuro il piede”.

venerdì 26 novembre 2010

Il fuoco....."il prete e la suora".


Nella tradizione di molte parti d’Italia e in quella Romagnola in particolare, il focolare era il centro del microcosmo domestico e carico di significati simbolici e fiabeschi.
La tradizione più sentita e ancora attuale, per chi possiede un camino, è quella del “Ceppo Natalizio”,rappresentazione del fuoco solstiziale, portatore di energia e forza vitale.
La cenere del ceppo, poi, un tempo veniva sparsa sul tetto della casa e nei campi e i resti carbonizzati messi in capo alle viti per scongiurare la tempesta e la grandine.
Il fuoco nel camino una volta si accendeva tutto l’anno perché si cucinava solo sulle braci, e non lo si doveva mai spegnere ma lo si lasciava estinguere da solo, sotto la cenere .
Anche nel lasciare la casa di un podere per un altro,non si spazzava mai completamente il focolare dalla cenere dell’ultimo fuoco,ma la si ammonticchiava da un lato e lasciata lì e al momento di partire si staccava la catena del camino e la si attaccava subito appena entrati nella nuova casa,dove per prima cosa si accendeva un nuovo fuoco.
Il fuoco del camino era l’unica fonte di riscaldamento di una volta ,e solo la cucina ne veniva riscaldata, le altre stanze erano fredde e umide e l’unico modo per stemperare un po’ l’aria era quella di utilizzare i braceri e gli scaldini.
Secondo la tradizione contadina,il primo fuoco abbondante per procurare le braci per riempire gli scaldini e gli scaldaletto veniva approntato la sera di Santa Caterina, il 25 novembre, continuando fino all’ultima sera , di solito a fine febbraio.
Per scaldarlo,nel letto si metteva“il prete con la suora”, così veniva scherzosamente chiamata una intelaiatura di legno (prete)che sosteneva le coperte e conteneva lo scaldino con le braci (suora).
Queste cose le ho vissute anch’io da bambina e ricordo che ci si svestiva velocemente perché le stanze erano gelide ,ma poi ci si trovava in un letto così caldo che alla fine si cercava sollievo allungando i piedi fino in fondo e negli angoli,dove le lenzuola erano ancora piacevolmente fredde e ruvide.
Nella casa di campagna dei miei primi anni c’era un focolare enorme e caliginoso,con una cappa misteriosa che a volte emetteva suoni e fischi che a noi bambini facevano un po’ paura e non per niente i camini sono ancora oggi luoghi misteriosi dai quali passano Befane e Babbi Natale, a memoria delle favole e delle storie di quando dai camini scendevano lupi, streghe e folletti dispettosi.

domenica 21 novembre 2010

Le rigaglie di pollo con la salvia.


Quando i polli nascevano e crescevano solo nelle aie e nei cortili,oltre che riservare arrosti e straordinari bolliti,permettevano all’arzdora di preparare un tegamino speciale con le rigaglie: cuore, fegato ,stomaci ,cresta, barbigli e budelline di una pollastra o di un galletto, meglio ,ovviamente di due.
Oltre al resto ,le budelline di pollo le ho mangiate anch’io da bambina , è uno dei ricordi legati alla mia nonna, infatti era lei che cucinava e governava la casa.
Le budelline dovevano essere lavate e rilavate e rivoltate con l’aiuto di un fuso, poi venivano sbollentate nell’acqua calda ,tagliate a pezzi e con questi ricavare dei nodini.
Venivano poi unite alle altre rigaglie e cucinate con poco olio, sale, pepe e salvia, a volte con l’aggiunta di due o tre pomodori maturi spezzettati.
Sapori e profumi indimenticabili…..
Un’altra “golosità” di un tempo , della domenica, soprattutto,erano le zampette bollite , che purtroppo ci si litigava perché solo due ,e, se in pentola era finita una gallina, a volte in pancia aveva dei grappoli di tuorli , mini ovetti deliziosi che di solito si lasciavano ai bambini di casa.
Cose così…..cose di una volta !!

martedì 16 novembre 2010

Brustolini e vin brulè .


Dal libro di Grazia, “La cucina dell’arzdòra”, riporto questo gustoso capitolo su brustolini e vin brulè che in inverno rallegravano le veglie campagnole agli amici del vicinato che si radunavano nel caldo delle stalle.
I brustolini in pratica erano semi di zucca e ceci abbrustoliti sulla teglia.
Ma prima di offrirli bisognava coltivarli e prepararli con le dovute procedure.
I semi di zucca venivano estratti dalle zucche più grosse, raccolte mature e lasciate esposte al sole per giorni.
Poi si aprivano e se ne toglievano i semi, che ben lavati venivano messi ad asciugare al sole su assi di legno e girati spesso perché si asciugassero perfettamente.
Dopodichè si sarebbero conservati in un sacco di tela fino a che non arrivasse l’inverno ,la stagione giusta per le veglie.
I ceci, invece, venivano seminati in marzo e la pianta si lasciava crescere finchè i baccelli diventavano tutti gialli.
Allora , cavata la pianta, si portavano i baccelli al sole sull’aia per farli ben seccare e poi si battevano con al “zerli”, due bastoni ,uno corto e uno lungo, legati insieme.
Ben secchi e vallati , anche i ceci si riponevano nel solito sacco di tela e quando servivano , insieme ai semi di zucca, venivano via via abbrustoliti sulla teglia di terracotta messa sopra la brace del camino.
A parte si preparava un po’ d’acqua e sale grosso da versare sui semi quasi cotti per ammorbidirli ,ingrossarli, ed anche insaporirli.
E da bere cosa di meglio , soprattutto se l’inverno era pungente , se non un buon brulè bollente ,che riscalda dissetando?
Per prepararlo si metteva il vino in una pentola posata sopra il fuoco del camino e vi si aggiungevano scorze di limone e arancio, chiodi di garofano , cannella e zucchero.
Quando il tutto cominciava a bollire , con uno zolfanello vi si dava fuoco per qualche minuto, che così “Us svampèva”, svaporava , perché bruciando avrebbe perso gradi e tranquillamente lo avrebbero potuto gustare anche i ragazzini che fossero alla veglia.
Vi era scarsità e miseria, ma con poco,in questo modo, nel caldo delle stalle si dimenticavano i disagi e ci si riuniva con piacere ed allegria.

sabato 13 novembre 2010

Il formaggio che vive due volte.



Il formaggio di Fossa per molti decenni è stato solamente un prodotto locale, ma il suo particolare gusto col tempo lo ha reso un prodotto ricercato ed interessante e anche molto imitato.
Le prime notizie certe sul formaggio di Fossa risalgono al XV secolo quando si narra che Alfonso D’Aragona ,figlio del Re di Napoli , sconfitto in battaglia dai Francesi , chiese ed ottenne ospitalità presso Girolamo Riario , signore di Forlì.
Nella impossibilità di essere totalmente mantenute,le truppe Aragonesi attuarono numerose scorrerie nelle campagne del circondario ,tanto che i contadini furono costretti a nascondere le provvigioni di ogni genere.
Nel novembre seguente,quando i soldati fecero ritorno a Napoli, i contadini riportarono alla luce le vettovaglie nascoste nelle fosse naturali e con stupore osservarono che i formaggi avevano mutato il loro aspetto ed erano diventati particolarmente saporiti e gustosi.
A Sant’Agata Feltria le fosse furono ricavate nelle case patrizie ,scavando la roccia arenarica,ed erano destinate alla conservazione dei cibi: si presentano nella forma classica ad otre o a fiasco e hanno dimensione media di cm.260 nel diametro di base , cm.270 di altezza e cm. 65-70 all’imboccatura.
Alcuni giorni prima dell’infossamento si brucia della paglia all’interno della fossa per togliere l’umidità e per eliminare i germi , poi si procede al rivestimento delle pareti con uno strato di 10 cm. di paglia sostenuta da intelaiature di canne.
Sul fondo vengono sistemate tavole di legno sollevate di 10 cm dal pavimento e si inizia con l’infossamento dei formaggi: questi sono già stati messi in numero di 8-10 all’interno di sacchetti di tela bianca e così sistemati vengono adagiati uno sull’altro fino ad occupare tutto lo spazio disponibile fino all’imboccatura.
Alla fine le fosse vengono chiuse e sigillate con il gesso.
Nei tre mesi di stagionatura il formaggio subisce delle trasformazioni strutturali e microbiologiche in condizioni di umidità e temperatura ideali, e dopo 90-100giorni quando le fosse vengono riaperte si estrae un prodotto dalle caratteristiche forme irregolari , privo di crosta , con pasta dura o semidura di colore giallo paglierino.
Questo è il formaggio di Fossa, dal sapore leggermente piccante e dall’inconfondibile aroma.

martedì 9 novembre 2010

I lavori di Novembre



Dal libro di Grazia “La campagna appena ieri”, (da cui il nome del Blog),stralcio queste righe che descrivono la vita e i lavori di una volta durante il mese di Novembre.
“Già questo mese, se le semine erano del tutto ultimate, induceva il contadino alla tranquillità.
Lo stesso clima leggermente nebbioso, e quindi ancor mite,permetteva sonni più lunghi e soltanto verso le sette e mezzo si cominciava a rigovernare la stalla, verso le dieci si faceva colazione, che doveva essere abbondante perché per molti avrebbe sostituito il pranzo di mezzogiorno.
Sembrava che ci fosse poco da fare nei campi, il lavoro invece c’era, ma diverso e meno assillante.
Solo chi aveva i cachi doveva fare un altro raccolto, l’ultimo dell’anno con quello delle nespole.
Tutti iniziavano le potature, che erano lente e si protraevano , per ragioni diverse sino a Febbraio e anche più in là.
Quando non pioveva ,anche in mezzo alla nebbia si svettavano le siepi,di cui si tagliavano le cime fino a pareggiarle.
Poi si cominciava la lunga potatura degli alberi da frutta , bisognava diradare le piante altrimenti il raccolto non sarebbe stato regolare e gli alberi sarebbero cresciuti male ,privi di vigore.
Per le viti occorreva ancor più tempo e molta abilità.
Dopo potato ,lungo i filari e nei frutteti, bisognava raccogliere i “sarmenti”.Si facevano delle fascine legate coi vimini dei gelsi e queste poi servivono per accendere il fuoco nel camino e per scaldare il forno dove si cuoceva il pane.
Quand’erano giornatacce, con la pioggia,si stava nella stalla o sotto il portico ad accomodare sedie,scale e scaletti ,a fare cesti e a rifare i manici a zappe, vanghe e forcali.
Le donne, invece ,a Novembre ,cominciavano a filare con la rocca la canapa e la stoppa,solo qualcuna aveva la lana ,che il mese dopo si cominciava a tessere.In più bisognava “rappezzare" per l’intera famiglia calze, camicie, pantaloni ,corpetti ,e persino le mutande….”

sabato 6 novembre 2010

L'osteria, posto per soli uomini.



“La vecchia osteria di una volta non era luogo da donne”.
Così inizia l’articolo di Mario Lapucci dal quale attingo queste notizie sulle osterie di paese e di campagna , luoghi ormai scomparsi e ritrovo di soli uomini.
Soltanto le signore di città,quelle svergognate borghesi , osavano andare al caffè o al circolo con i mariti ai quali si permettevano perfino di camminare a fianco per la strada.
L’antica morale contadina e il gallismo della gente di Romagna , imponeva alla donna di stare al suo posto e per strada di camminare un po’ indietro al suo uomo, alla sua sinistra.
Eppure ci sono state in Romagna ostesse famose , immortalate in romanzi e racconti ,ma erano lì soltanto per servire i clienti.
Le osterie di un tempo erano quasi sempre arredate con lunghe tavole affiancate da panche, più raramente si vedevano tavolini e sedie.
L’oste stava dietro al suo bancone ,in fondo alla stanza sempre fumosa , con un grembiule vagamente pulito alla vita intento a versare il vino richiesto nei misurini di vetro o nelle “mezzette piombate” col timbro dell’ufficio metrico.
A fianco teneva lo scaffaletto delle carte da gioco,e faceva i conti col gesso spesso sul piano del bancone , sul quale ogni tanto passava uno straccio, anch’esso poco pulito.
Alcune osterie avevano il gioco delle bocce sotto una pergola ombrosa e i giocatori si sfidavano in epiche partite che avevano come posta regolarmente il litro di vino ,seguiti dagli apprezzamenti o dalle critiche degli spettatori.
In altre si poteva trovare anche da mangiare: cibi semplici , intingoli di coniglio, umidi, trippa, minestre con fagioli o ceci, formaggio e salame, cibi che ben si accompagnavano con un bel bicchiere di vino rosso.
Alla sua stagione non era difficile trovare cocomeri, tenuti in fresco nel pozzo e spaccati sul tavolo con un deciso colpo di coltello.
In queste osterie gli avventori, nel bicchiere di vino , cercavano per lo più una consolazione per i guai della vita, la ricorrente miseria e i litigi in famiglia ; si sfogavano i rancori, si raccontavano i problemi , si facevano interminabili partite a carte, ma si concludevano anche affari e contratti di raccolti e vendite di bestiame.
E se poi capitava il forestiero era anche una buona occasione per avere notizie del mondo.

mercoledì 3 novembre 2010

In viaggio nei luoghi del "Trenino Rosso"



Durante le feste di Ognissanti, io, Grazia e suo marito Franco,abbiamo fatto un viaggio sul “Trenino del Bernina”: da Tirano a St. Moritz; da qui a Coira, capitale dei Grigioni ; da Coira a Maienfeld, un delizioso paese dove la scrittrice Johanna Spyri passava le vacanze da bambina e dove ha creato il personaggio di Heidi.
Abbiamo attraversato La Valposchiavo ricca d’acqua con le cime dei monti che si specchiano nel lago di Poschiavo, mentre sui pendii esposti al sole abbiamo ammirato gli estesi terrazzamenti coltivati a vite che formano un regolare infinito ricamo.
Più avanti, in prossimità del Passo del Bernina si incontrano in successione tre laghi, il Lago Bianco , il Lago Nero e il Lago Piccolo, quest’ultimo ,situato abbondantemente sopra i 2000 metri ,nel viaggio di ritorno l’abbiamo trovato completamente ghiacciato.
Dopo il passo si percorre la Val Bernina, dominata da foreste di pini e larici e ricca di estesi pascoli.
Dopo St. Moritz, è la volta della tratta dell’Albula,che in poco più di due ore conduce a Coira (Chur),in un susseguirsi di villaggi, campi coltivati , boschi di larici , abeti rossi e pini cembri dai bellissimi colori autunnali e pascoli punteggiati di mucche e pecore.
Da Coira in 15 minuti si arriva a Maienfeld, dal quale parte un sentiero in mezzo a vigneti ,a pascoli e versanti ricoperti di piante dagli stupendi colori autunnali che in quaranta minuti di tranquilla passeggiata conduce alla “casa di Heidi”, la casa dei nonni della scrittrice svizzera Johanna Spyri che nel 1880 creò il personaggio della famosa orfanella.
E’ una autentica e antica casa di montagna di pietra e legno, e varcare la sua soglia è come fare un viaggio a ritroso nel mondo contadino svizzero del tardo XIX secolo.
Dalla cantina-dispensa si sale nel soggiorno rustico che contiene una grande stufa che dalla parte dell’ingresso funzione da forno per il pane ;di lato c’è una delle camere da letto arredata semplicemente come una volta e la cucina con una massiccia stufa a legna a tre fornelli.
Tanti e vari gli oggetti antichi di uso quotidiano che vi sono conservati: strumenti per lavorare il legno, per il lavoro nei campi, per fare il formaggio, per raccogliere la frutta e il fieno, oggetti di cucina e biancheria semplice e rustica nelle camere.
Anche il sottotetto è sfruttato, sia come luogo di lavoro che di dispensa ;c’è un’altra camera da letto, e in un angolo il tavolino dove la scrittrice creava le storie di Heidi e dove è conservata una collezione dei suoi libri tradotti in molte lingue.
Luoghi stupendi: pascoli ondulati, alberi gialli ,rossi, arancioni, qua e la ancora verde cupo, vigne rossiccie e basse, casette da fiaba e paesi ordinati e accoglienti.
E nel viaggio di ritorno , neve abbondante, fresca e vaporosa che nella notte aveva coperto monti e versanti e reso indimenticabile il paesaggio nel quale l’unica nota di colore era,per lunghi tratti, il dispiegarsi delle carrozze “del trenino rosso”.

La prima immagine è della Val Poschiavo,la seconda è la"casa di Heidi".

giovedì 28 ottobre 2010

1° novembre,Capodanno dei Celti.


L’avvicendarsi delle stagioni, dei cicli solari, il periodico ripetersi dei fatti della natura,richiamano da sempre ad una dinamica circolare del tempo.
Il cerchio finisce e ricomincia in un mordersi la coda, e proprio il serpente che si morde la coda rappresenta il tempo periodico e l’anno stesso (annus significa anche cerchio).
Ma quale era nel cerchio il punto di fine-principio ,cioè quello del Capodanno?
Questa data non era la stessa per tutti,e non lo è stata fino a tempi relativamente recenti.
Alcune popolazioni ponevano il Capodanno nel periodo del solstizio invernale, altre all’arrivo della primavera,altre al momento di ricondurre il bestiame ai villaggi….
L’antico Capodanno Celtico per esempio, si celebrava agli inizi di novembre,un rito che sopravvive ancor oggi presso popoli anglosassoni con la festa di Hallowen, mentre quello romano iniziava il 1 marzo.
Si deve a Giulio Cesare se,oltre ad alcune correzioni e all’introduzione dell’anno bisestile,si spostò definitivamente e legalmente il Capodanno dal 1 marzo al 1 gennaio.
Il calendario giuliano venne poi adottato dai cristiani , ma una certa confusione per quanto riguardava il Capodanno restò: variava da Stato a Stato, da città a città,chi il 1 marzo,chi il 25 marzo, chi il 25 dicembre,chi il giorno di Pasqua o appunto il 1 gennaio, la data alla quale le classi popolari restarono principalmente fedeli.
In Romagna sono rimasti segni di queste varietà di Capidanno in alcuni usi giuridico-tradizionali: nei contratti dei garzoni di campagna , per esempio,che scadevano il 25 marzo,o quelli della mezzadria che invece si chiudevano a San Martino, 11 novembre, nel periodo di chiusura del capodanno celtico, che cadeva il 1 novembre.
I Celti, popolo di agricoltori e allevatori,sono venuti e sono rimasti in territorio romagnolo lasciandone traccia in molte usanze e tradizioni e novembre ,per loro faceva da spartiacque fra un anno agricolo e l’altro, con la fine dei raccolti e l’inizio delle semine: il grano è stato appena seminato, è”sceso negli inferi” nel cuore della terra e inizia il suo lento cammino verso la futura germinazione.
Per questo i Celti festeggiavano il loro Capodanno ritrovandosi nei cimiteri fra canti e libagioni,per rappresentare l’incontro dei vivi, che devono morire, e dei morti , che in quella sera di passaggio da un anno all’altro erano autorizzati a ritornare sulla terra in comunione con loro.

mercoledì 27 ottobre 2010

le dolci giuggiole


La pianta del giuggiolo in passato era molto coltivata e nelle nostre campagne romagnole ne rimangono vecchi e splendidi esemplari , posti a ridosso di muri e di ruderi, conferendo a questi luoghi un fascino particolare.
Il giuggiolo è stato introdotto in Italia dal Medio Oriente per opera del console romano Sesto Papinio , all’epoca dell’Impero di Augusto.
Ma la sua terra d’origine è la Cina, dove ancora oggi le giuggiole costituiscono un importante ingrediente per la lavorazione di pani , dolci e bevande.
Specie rustica ed estremamente frugale,, di facilissima coltura , si adatta a tutti i terreni , anche sabbiosi e calcarei ; va posta a dimora in pieno sole , al riparo dai venti di tramontana, possibilmente ,come si fa da sempre, a ridosso dei muri.
L’unico inconveniente ,se vogliamo ,è di essere pianta spinosissima .
È molto longevo ma di crescita estremamente lenta, occorrono ben più di dieci anni dall’impianto prima che dia frutti,ed è per questo che presso i vivai il costo di un esemplare adulto raggiunge prezzi elevati. Attualmente però esistono in commercio varietà a frutti grossi che entrano in produzione in un tempo relativamente breve.
Il suo legno è durissimo ma di scarso impiego, in quanto assai raramente il tronco raggiunge le dimensioni adatte per una qualche utilizzazione .Però un tempo nelle campagne veniva usato per costruire piccoli strumenti musicali a fiato; vale la pena citare il Pascoli che in una sua poesia dice: “ Festoso strepito de’ flauti di giuggiolo”.
Le giuggiole,dalla polpa biancastra e zuccherina,hanno un elevato contenuto di proteine, zuccheri,vitamine e notevoli proprietà medicinali ,lenitive, emollienti e antinfiammatorie ;se ne fanno marmellate,conserve e sciroppi
Malgrado ciò,sono diventate in molti modi proverbiali sinonimo di cosa di poco conto come per esempio:“ E’ un lavoro impegnativo,altro che giuggiole!”,oppure: “E’un giuggiolone”, si dice quando uno è considerato un po’ingenuo.
Eppure dalle giuggiole qualcosa si ricavava anche una volta, se nel registro dare-avere della Tenuta Torre dei Torlonia del settembre 1847 ,redatto all’epoca dall’amministratore Giovanni Pascoli, prozio del Poeta,possiamo leggere :“ Ricavati da giuggiole raccolte nel cortile del Palazzo e vendute a diversi lire 1,25”.
E non è nemmeno poco, visto che la biada per i cavalli del fattore, comprata a Rimini ,per lo stesso mese di settembre,è costata lire 1,20.

lunedì 25 ottobre 2010

Dolci dei primi freddi.


La piadina dei morti.

Al sopraggiungere dei primi freddi , per le festività di Ognissanti, si faceva un tempo la “piadina dei morti.
E’ un dolce rustico, povero, la cui base è la pasta di pane lievitata,da lavorare ancora sul tagliere con olio versato a gocce, perché venga ben assorbito.
( Per un kg. di pasta di pane : 1 bicchiere di olio,150g.di zucchero,150g.di uvetta, 150g.di mandorle e pinoli e una decina di noci.).
All’impasto di aggiunge lo zucchero ,l’uvetta e il trito di mandorle e pinoli.
Si lavora con energia, poi si stende in un padellone o tutto in una volta o a focaccine e si ricopre con mezze noci sgusciate.
Si lascia a lievitare in luogo tiepido ancora mezz’ora poi si cuoce in forno a calore moderato.

La meca

Un altro dolce povero , di poche pretese, che la Romagna non indulgeva certo nell’imbandire dolci, era” la meca”.
Come afferma anche Grazia nel suo libro “la cucina dell’arzdora”,la meca era un misero dolcino,adatto soprattutto alle veglie nelle stalle durante le giornate di quei gelidi inverni.
Anche se ciascuno la faceva a modo suo, per prepararla bastava un po’ di farina di polenta,, un pizzico di bicarbonato, e subito se ne faceva con un po’ d’acqua un impasto al quale si aggiungeva un po’ di uva secca e appena un poco di zucchero, anche se spesso quest’ultimo passaggio si saltava.
Si impastava il tutto dando la forma di un filoncino e si metteva a cuocere avvolto in carta gialla inumidita sotto la cenere ben calda.
Una volta cotta ,la meca si tagliava a fette e si mangiava accompagnata da un bicchiere di vino.

mercoledì 20 ottobre 2010

Il pancotto della nonna.


Dal libro di Grazia”La cucina dell’arzdora” sui mangiari romagnoli di una volta, riprendo la ricetta del “Pancotto”, il modo più semplice ed economico che avevano una volta di riutilizzare gli avanzi del pane secco, che non si buttava mai, anzi , spesso era difficile che ne rimanesse alla fine della settimana.
E’ una ricetta semplicissima :
“ Recuperato dunque il pane secco,lo si doveva sbriciolare un poco, mentre intanto si metteva dell’acqua sul fuoco in una pentola.
Appena l’acqua alzava il bollore, vi si buttava dentro il pane sbriciolato e lo si lasciava bollire per circa un quarto d’ora, con anche un pochino di lardo ottenuto con il raschiamento di qualche pezzetto di cotica di maiale.
Altrimenti il pancotto lo si condiva solo con poche gocce d’olio con l’aggiunta di un po’ di formaggio grattugiato”.
E’ pancot fatto ad arte era una minestra consistente e piacevole, purchè abbondante e servito molto caldo , che allora non serviva solo ai vecchi senza denti e ai bambini, ma per tutta la famiglia, soprattutto quando era inverno con le serate buie e uggiose e, fatta colazione di mattina tardi, si pranzava solo verso le cinque, le sei di sera.
Dice un vecchio proverbio: “Quand in fameja u j’è un indispòst, e’ pancot u l’mèt a post” , tanto era un piatto ben considerato ai tempi dei nostri nonni .Oggi nessuno si sogna più di fare il pancotto,e tantomeno di riutilizzare il pane raffermo, anche se devo dire che io qualche volta d’inverno lo preparo, però utilizzando del buon brodo di carne, e spolverizzando con abbondante parmigiano.
Comunque sia,in tempo di crisi e di ritorno alle ricette povere, è un piatto almeno da provare…..

martedì 19 ottobre 2010

La piada, pane dei poveri.


E dopo la magia del pane, dobbiamo onorare la piada, pane povero,tipico dei contadini romagnoli.
Era considerato infatti il pane della povera gente, tanto che l’Artusi disdegnò di inserire la piada nella sua”Scienza in cucina” perché non lo riteneva degno di figurare fra i cibi da lui offerti al ceto borghese e benestante.
Aldo Spallicci, che nel 1920 fondo la famosa rivista “La Piè”, ce ne dà gli ingredienti:un chilo di farina poco setacciata, un pizzico di bicarbonato, 50-100 grammi di strutto e un cucchiaino raso di sale.
Si aggiunge acqua per fare un impasto piuttosto consistente. Si fanno poi delle pagnottelle e ognuna poi si assottiglia col matterello fino ad ottenere un disco di pochi millimetri di spessore.
In ultimo si cuoce sul testo bucherellandone la superficie con una forchetta ,poi si taglia in quattro parti ed è pronta da mettere in tavola.
Con un chilogrammo di farina si possono fare perfino sei o sette piade ,il pane per una famiglia di quattro o cinque componenti.
Una volta, nei tempi di miseria , soprattutto presso le famiglie bracciantili, la piada si usava farla con la farina “d’amstura”, cioè con una mistura di farina di grano e di granoturco : veniva chiamata “e’ piadot” e a volte era fatta anche solo di farina di granoturco e veniva grossa e scura e granulosa.
Oggi la piada è diventata un simbolo distintivo della Romagna ma ora viene chiamata da tutti “piadina”,specie se ci si riferisce a quella servita nei nostri ristoranti tipici o venduta negli appositi chioschi e soprattutto non si cuoce più sul testo di terracotta ma sulla lastra di ferro infuocata dal gas.
Fu Giovanni Pascoli che italianizzò la parola “piè”,”pièda” “pida” in piada, e quando fu costretto ad abbandonare la Romagna ,dalla casa di San Mauro portò con sé due sole cose: una pianta di erba cedrina che con il suo profumo gli ricordasse il giardino della madre e un testo che gli doveva servire per fare, con le sorelle Ida e Mariù la piada, “il pane che si fa’da soli”.
Scrive il Poeta:
…………..
Ma tu,Maria,con le tue mani blande
domi la pasta e poi l’allarghi e spiani,
ed ecco è liscia come un foglio,e grande

come la luna; e sulle aperte mani
tu me l’arrechi , e me l’adagi molle
sul testo caldo, e quindi t’allontani.

Io la giro, e le attizzo con le molle
il fuoco sotto, fin che stride invasa
dal calor mite ,e si rigonfia in bolle:

e l’odore del pane empie la casa.

venerdì 15 ottobre 2010

Il pane cotto nel forno a legna.



Nelle campagne romagnole il pane si faceva generalmente una volta la settimana .
Per fare il pane ci volevano farina di grano ben setacciata, acqua, lievito, fatica, fuoco e non faceva male qualche benedizione.
Quando la miseria era più pressante,alla farina di grano si mescolava farina di granturco e in quel caso ne veniva un pane duro e meno gradevole del pane bianco.
I preparativi di solito cominciavano la sera: fin dalla volta precedente si era conservato il lievito madre che veniva sciolto stemperandolo con acqua tiepida e poi impastato con la farina formando una grossa palla piuttosto molle che si lasciava lievitare tutta la notte.
Durante la notte l’impasto cresceva e alla mattina presto lo si aggiungeva a tutta la farina occorrente , aggiungendo altra acqua tiepida e una manciata di sale.
Si amalgamava il tutto e si procedeva a lavorare l’impasto : era la parte più faticosa della lavorazione e quasi tutte le famiglie si aiutavano con la gramola ; una donna azionava la leva e un’altra rimuoveva velocemente la massa che stava lievitando.
Dopo mezz’ora l’impasto era pronto da lavorare nelle forme desiderate.
Le forme preferite un tempo dalle arzdòre erano il filone e la coppia , si doveva lavorare alla svelta perchè la pasta lievitava in fretta ,ma si cercava di dare grazia e simmetria ai pezzi cercando di farli tutti uguali.
Man mano che le forme erano pronte, si allineavano sull’asse adibita all’uso ,si coprivano con un telo bianco e pulito e si aspettava controllando di tanto in tanto il punto della lievitazione.
Intanto il forno era stato acceso, preparato, ed era al giusto punto di calore.
Si portava l’asse davanti alla bocca del forno e con l’apposita pala si mettevano delicatamente i pani sul piano ben spazzato staccandoli con un piccolo e deciso colpetto.
Compiuta l’operazione si chiudeva la bocca del forno segnandone il coperchio con una croce e si aspettava la cottura: il pane assumeva una colorazione dorata mentre intorno iniziava a spandersi il suo caratteristico odore.
Il pane veniva estratto dal forno bello, croccante e profumato e depositato in una grande cesta di vimini per essere poi collocato o su un’asse in cucina o nella credenza con le ante a retina per far passare l’aria e mantenerlo asciutto.
Per una settimana il pane (un pèz ad pèn) era assicurato, perché come dice il proverbio: “Tutti i guai sono guai, ma il guaio senza pane è molto più grosso” .

mercoledì 13 ottobre 2010

La fiasca fiorita di Forlì.



Questo quadro ,datato 1625-1630, di autore ignoto, secondo Paolucci ,il critico responsabile dei Musei Vaticani, non ha niente da invidiare in quanto a perfezione, al canestro di frutta del Caravaggio.
Si trova al Museo di Forlì e vale da solo il viaggio e la visita.

sabato 9 ottobre 2010

VINO E DINTORNI

IL FIASCO

Non é ancora certo a quale epoca risalga il "fiasco", cioè quel vaso di vetro, rotondo e corpacciuto senza piede, con una copertura fatta di erba palustre essiccata al sole ed imbiancata con zolfo che ne cinge il corpo e gliene fornisce anche la base. I pochi frammenti recuperati negli scavi o ricavati da fonti scritte collocano l'origine del fiasco nel 1400, tuttavia Boccaccio nel Decamerone già fa riferimento al fiasco, indicandolo come recipiente adatto a contenere buon vino vermiglio, e specifica che esistono diverse misure di quel recipiente, il che lascia supporre che vla produzione fosse già avviata nel 1300.
Un affresco della metà del XIV secolo, eseguito dal pittore Tomaso da Modena, mostra un fiasco di piccole dimensioni, rivestito con cordicelle disposte orizzontalmente, che lasciano libera solo la bocca.

venerdì 8 ottobre 2010

Il vecchio forno a legna


Ormai il forno a legna per cuocere il pane non esiste più nemmeno nelle case di campagna.
Una volta, invece, ancora nei primi anni dopo la Seconda Guerra Mondiale,non mancava in nessuna casa colonica, qualche volta attaccato alla casa e qualche volta sotto il portico o in posizione isolata, discosto da pagliai e fienili.
E non si usava solo per il pane, ma per cuocere arrosti (pochi, per la verità), ciambelle per le Feste, o per scaldare i rami di olmo che servivano per costruire le forche da fieno dando col calore la giusta curvatura.
Il pane si faceva una volta alla settimana e mentre l’impasto lievitava si procedeva a preparare il forno per ottenere il giusto grado di calore.
La prima operazione era quella di introdurre una fascina di stecchi (potatura delle viti, delle siepi di biancospino, degli alberi da frutta) appena dentro l’imboccatura, con sotto paglia o carta accesa e tenerla sollevata col forcone finchè non avesse preso fuoco.
Poi si spingeva dentro un poco alla volta fino ad arrivare a farla bruciare al centro del forno e alla terza fascina il fuoco ormai era pronto .
Allora si spargevano le braci sulle pietre del forno e si preparava il piano su cui posare il pane: una parte delle braci veniva spazzata intorno alle pareti con uno “scopone”di saggina dal lungo manico e il pavimento pulito dalla cenere con uno straccio umido legato ad un palo o a un forcone.
Il forno era ormai pronto per la cottura e se ne chiudeva la bocca con l’apposito paravento di ferro per mantenerne il giusto calore.
Tutte queste operazioni facevano parte di un rituale composto da atti sempre uguali e realizzati con tempismo perfetto: dall’accensione fino al momento in cui si poteva introdurre il pane si doveva seguire un itinerario forzato e naturale per cui non era possibile variare, anticipare o posticipare nulla.
Dal momento in cui si dava fuoco alla prima fascina al momento in cui si poteva dire “il forno è pronto”,passava non meno di un’ora ,un’ora e mezzo e a questo punto il pane doveva essere già sull’asse pronto per essere infornato.
……le donne infatti,avevano cominciato a preparare l’impasto già dalla sera prima …..ma ….questa è un’altra storia……..

martedì 5 ottobre 2010

La bottega di una volta.



Nell’introduzione della ristampa di una guida di Rimini dei primi decenni del Novecento, l’Editore Bruno Chigi ricorda e descrive una rivendita di “Sali e Tabacchi e generi vari “del tempo di quando era bambino, quella di “Bigiola” nei pressi del bivio per Sant’Aquilina.
“In quella bottega si trovava di tutto: sale, tabacchi, riso , pasta ,conserva di pomodoro, “pitture “ di baccalà e di “lumbardoun” (stoccafisso),”sardeli” (acciughe sotto sale), tonno, aringhe, caramelle, confettini colorati per la ciambella, castagne secche,cannella, noce moscata, spago, quaderni, matite,carta oleata,sapone, bandella, filo da cucire e per lavorare ai ferri, bottoni, aghi, petrolio e carburo per l’illuminazione ;inoltre aspirine, purghe e pastiglie di potassio per il mal di gola.
Quello di Bigiola era, come tanti altri empori , un “centro di cultura”: vi si davano appuntamento diverse persone per scambiare opinioni sull’andamento delle stagioni ,sul raccolto, sulle situazioni famigliari ,sulla politica,sulle persone per bene e sui balordi.
D’inverno spesso vi si giocava a carte : accanite partite a briscola e tresette , tra battute, scherzi e racconti esilaranti “.
Queste botteghe erano più o meno le stesse in tutti i paesi, avevano un grande bancone con sopra la bilancia a due piatti,dietro il quale stava il padrone o la moglie,i conti si facevano a matita sulla “carta gialla”e i contadini vi scambiavano le uova o altri prodotti in cambio di baccalà o di sapone per il bucato e molto spesso di “segnava”,cioè si scriveva il dovuto su un libretto e si pagava a fine mese o dopo il raccolto.
Poi ,nel giro di pochi decenni, tutto si è modernizzato, una dopo l’altra le botteghe sono state sostituite da negozi asettici e specializzati, con nuovi prodotti richiesti dall’accresciuto benessere : un ‘altra casella di vita ormai scomparsa.

sabato 2 ottobre 2010

Il maestro bottaio, mestiere ormai scomparso.


Autunno,tempo di vendemmia , di vino, e di botti e tini di ogni tipo e misura.
Di artigiani bottai locali ce n’è ancora qualcuno, ma sono rimasti in pochi e anche se nei rari laboratori sono arrivate le macchine ,queste servono solo a fare più presto, perché quello che conta, per il risultato finale è ancora l’abilità manuale.
Una abilità che si conseguiva con anni di pratica e attenta osservazione, facendo a mano doga per doga ,con la giusta curva e il giusto spessore , sicuri poi che appoggiandole una all’altra avrebbero perfettamente aderito e composto,insieme ai cerchi, botti perfette con la dovuta bombatura centrale calcolata ad occhio sicuro.
Perché la curvatura del legno, nelle botti artigianali , si ottiene in due soli modi: o togliendo il superfluo al legno con sega,pialle, scalpelli “sapeta” e raspa, o piegando le doghe secondo l'antica pratica della curvatura a mano con l'acqua bollente e una conseguente paziente stagionatura.
Una volta i tini di pregio si facevano col legno di gelso ma adesso è difficile trovarlo e quello che viene dall’estero si usa quasi esclusivamente per le piccole botti per l’aceto balsamico, botti anche minuscole da pochi litri.
Invece per le botti il legno più usato è quello di larice, di castagno e rovere, ma anche questo è tutto legno di importazione perché le nostre querce hanno il legno troppo duro ,tanto che una volta, per ammorbidirlo, seppellivano le tavole a stagionare sotto il letame.
Cose di un altro tempo e di un altro mondo, quando la fretta non andava mai a discapito della qualità e uomini pazienti e abili erano padroni del loro mestiere.

mercoledì 29 settembre 2010

E' ARRIVATO L'AUTUNNO


MI SCUSO CON I LETTORI E CON QUANTI COLLABORANO AL NOSTRO BLOG MA CON LE FOTO E LA LORO GIUSTA COLLOCAZIONE HO ANCORA DELLE DIFFICOLTA'.

martedì 28 settembre 2010

La scuola di tessitura a telaio di Torriana.



A Torriana, esiste da alcuni anni un laboratorio artigianale di tessitura a telaio orizzontale , si chiama:”Filo di Penelope…filo del mondo”
Nato inizialmente nell’ambito dei laboratori della scuola elementare del Paese , ha poi usufruito dei finanziamenti della provincia e ora tiene corsi di tessitura grazie alla disponibilità di 6 veri telai orizzontali e altri più piccoli da tavolo, per chi voglia accostarsi a questa arte femminile così antica.
I corsi inizieranno a fine Ottobre nei locali messi a disposizione del Comune di Torriana in Via Roma,e per chi volesse ulteriori info.si consiglia di rivolgersi all’URP., l’ufficio per le relazioni con il pubblico.
Invece chi volesse vedere i lavori realizzati dalle allieve del lab.di tessitura, a Rimini, nel Palazzo del Podestà , li potrà ammirare durante la Mostra “Rimini Ricama”, che si terrà dal 2 al 10 ottobre, un allestimento davvero suggestivo che spazia tra tessitura, ricamo, pizzi, e tutta la vasta gamma dei lavori femminili.

ARRIVA L'AUTUNNO

L'Autunno, quello di una volta in campagna, aveva certe giornate molto pesanti e dense di preoccupazioni. In Ottobre c'era da fare non solo e non tanto per la semina, ma prima e più ancora per l'aratura, e poi per l'erpicatura, ove si doveva fare in modo che il terreno si sminuzzasse con " e stirpatour" e poi con "l'erpice" in modo che la terra diventasse finissima. Per la semina c'erano sempre allarmi e paure per via del tempo, guai se pioveva ma guai se il terreno era secco. Così era sempre bene rifarsi ai Santi, che per il 13..." San Gaudenz, taca i bu e mand'inenz", mentre per il 20..." San Simoun, staca i bu da e tmon", anche se poi non era sempre vero o per chi aveva troppo terreno o per chi aveva pochi capi da lavoro.
Ma in Ottobre c'era anche da finire con la vendemmia, e se pioveva era anche quello un gran problema, un lavoraccio con quel fango che rendeva tutto più difficile. Col sole invece era bello riempire d'uva i cesti di vimini, e se c'era un giovanotto vicino a una bella ragazza il cesto, per andarlo a vuotare, glielo prendeva lui perchè pesava.Per la gioventù quelli della raccolta dell'uva erano i momenti degli scherzi, delle risate, delle cante, e qualche volta ne nasceva l'amore, così che dopo le vecchie maligne e maldicenti se lo raccontavano..." u la scarzeva e pu u la tucheva". Poi con "e broz" tirato dalle bestie, nel portico della casa venivano fatte mettere le casse, che pesavano, e le ragazze, quelle che ci tenevano, aiutavano a scaricarle, quelle casse, per far vedere ch'erano brave. Se l'uva quell'anno era tanta "us tuleiva gl'ovri", si facevano venire gli operai, che a pagarli toccava al contadino. Un po' alla volta si buttava l'uva ne la "mnarola", che stava sopra il tino e via via la si pigiava con i piedi nudi, ma lavati prima nell'ebi. Per far fermentare il mosto, "par fel bulì cl'elza e capel dal mnaza" ch'erano i raspi i vinaccioli e le bucce, coi mastelloni di legno si buttava il mosto nel tino, e dei tini il contadino ne poteva avere più o meno da uno a tre. Dopo circa una settimana di bollitura il vino si versava nelle botti, ad aspettare il travaso fino a metà Novembre.

lunedì 27 settembre 2010

Inaugurato il Museo Mulino Sapignoli.



Gran bella giornata ,ieri, a Poggio Berni, per l’inaugurazione del Museo Mulino Sapignoli.
Questo mulino, molto antico e rimasto attivo fino agli anni ’80,dopo anni di restauro è stato restituito alla collettività sotto forma di Museo, per mantenere la memoria di un’arte vecchia di secoli.
Il restauro è iniziato nel 2003,e la spesa di un milione di euro è stata finanziata per metà dalla Regione che ha creduto al progetto dell’amministrazione comunale e , vedendo il risultato, sicuramente sono stati soldi impiegati bene.
Il mulino Sapignoli, come ha detto il Sindaco Amati, è il portale d’ingresso della via dei 165 mulini presenti lungo la Marecchia fino a Pennabilli.
Luoghi di lavoro , di scambi, di traffici ,di storie e folletti,il mulino nel tempo ha avuto grande importanza , il mugnaio, come ci ha detto ieri un signore che ancora fa’ questo lavoro, una volta era importante quanto e come il Sindaco.
Nel mulino, riportato alla vita, le meccaniche ora sono funzionanti e ieri, grazie alla forza dell’acqua , una delle due macine in pietra girava, facendo scendere la farina nel cassone ,e chissà quante persone ha visto passare davanti a se e quante storie potrebbe raccontare ……

sabato 25 settembre 2010

26 settembre 1944, la linea Gotica si ferma a S. Mauro.



Il mattino del 26 settembre 1944, i battaglioni canadesi , insieme a truppe neozelandesi ,appoggiati dai carri armati, attraversano il Rio Salto in direzione di San Mauro.
Qui si scontrano con i Tedeschi che avevano occupato il Paese e il combattimento,furioso, avviene in pieno centro ,di casa in casa , anche con micidiali scontri all’arma bianca e con gravi perdite da ambo le parti.
Gli Alleati riescono a proseguire l’avanzata mentre i cacciabombardieri e l’artiglieria pesante intervengono a bombardare le linee tedesche.
Tra il 27 e il 28 settembre, dopo che una intera compagnia alleata viene annientata dai Tedeschi, inizia il grande attacco che segna la sorte dell’antico ponte romano di Savignano, fatto saltare in aria dai tedeschi in ritirata.
L’asse San Mauro -Savignano resta fra due fuochi sotto una pioggia di granate e i bombardamenti continuano per giorni sino all’offensiva finale , sferrata in ottobre : il 20 e 21 gli alleati libereranno Cesena.
Savignano, Gatteo e San Mauro subiscono notevoli perdite di vite umane e la distruzione di gran parte di case, ponti e strade: a San Mauro il 90 per cento del paese non esisteva più, così pure Savignano che ebbe anche un centinaio di morti.
La campagna fu devastata, stalle e abitazioni saccheggiate.
Il 26 settembre , nei pressi di Villa Torlonia, un bombardiere sgancia due bombe: una colpisce una postazione tedesca, l’altra centra in pieno la casa del mezzadro Domeniconi nel podere Fabbrona e uccide 23 persone, 13 delle quali componenti della stessa famiglia patriarcale sammaurese.
Alcuni giorni prima altre tre persone erano rimaste uccise nel podere Cima per lo scoppio di una granata e altri morti si ebbero in Paese .
Tutte le case coloniche della tenuta Torlonia poste nei poderi confinanti con il fiume, dove i tedeschi si erano arroccati, vennero completamente distrutte e molte altre danneggiate.
La popolazione civile venne fatta sfollare precipitosamente , caricata sui camion dagli alleati ed evacuata a Viserba : da qui trasportata perlopiù nelle Marche, come i miei nonni e tutta la famiglia, che quando poterono tornare, dopo alcuni mesi, trovarono tutto distrutto: casa, stalla, campi, viti...non era rimasto più niente.

mercoledì 22 settembre 2010

Poggio Berni inaugura il Museo "Mulino Sapignoli".



Domenica 26 settembre, alle 15.30 a Poggio Berni viene inaugurato il Museo “Mulino Sapignoli” , il nuovo polo culturale che alla biblioteca già ospitata al primo piano dell’edificio, aggiunge al piano terra il Museo dedicato all’antica arte molitoria.
Infatti la presenza dei mulini a Poggio Berni è veramente molto antica, provata da un documento conservato nell’archivio storico di Sant’Arcangelo del 1588 ,dove sono dichiarati i nomi di ben 5 mulini poggesi , un numero considerevole per le piccole dimensioni del territorio e tutti e 5 rimarranno attivi nel corso del tempo fino a pochi decenni fa.
Acqua, pietra e grano ….per secoli un lavorio continuo , e poi in pochi decenni la totale dismissione.
Infatti, come si può leggere nel libro “i mulini della Valmarecchia, di Luca Morganti e Mirco Semprini, nel rilievo compiuto per l’IGM del 1937- per i comuni di Torriana e Verghereto, per le province di Arezzo e Pesaro, per la R. di San Marino, - e del 1929 per i comuni riminesi,- erano ancora funzionanti 84 mulini.
Di questi , in poco più di 60 anni ben 81 cessano l’attività.
Ed ecco dunque l’importanza di un Museo che mantenga viva la memoria della tradizione molitoria del paese di Poggio Berni e dell’intera Valmarecchia, un territorio
nel quale gli autori del libro già menzionato, hanno censito ed identificato ben 165 mulini ad acqua, tutti del tipo semplice a ruota orizzontale.
Appuntamento dunque a domenica a Poggio Berni per la visita al Museo allietati da buona musica popolare e da un buffet gastronomico locale.

domenica 19 settembre 2010


Cristo al torchio o Cristo Vignaiolo, autore ignoto del XVI Sec.Matelica Chiesa di Sant'Agostino

giovedì 16 settembre 2010

La vendemmia nella Tenuta Torre.



Nella grande Tenuta Torre dei Principi Torlonia, a San Mauro, la vendemmia era uno dei raccolti più importanti e redditizi.
La raccolta dell’uva nei 140 poderi si faceva con 5.000cesti di vimini,e i carri andavano e venivano dai filari al grande cortile interno del Palazzo Padronale, dove si scaricava l’uva in attesa di essere pigiata.
Nel Palazzo esisteva uno stabilimento enologico , dove l’uva veniva pesata e ammostata a mezzo di pigiatoi meccanici : i locali di pigiatura , uno per le uve bianche l’altro per le uve rosse, erano costituiti da tre grandi magazzini sovrapposti alle tinaie.
Dal primo si scendeva esternamente nell’ampia corte,dagli altri ,mediante scala di ferro a chiocciola, si scendeva nelle tinaie.
Nelle vaste cantine esistevano due locali speciali destinati a due botti della capienza di 500 ettolitri l’una, oltre a 26 botti di quercia di Slavonia della capacità ognuna di 75 ettolitri.
Inoltre vi erano altre 73 botti di piccola dimensione dai 12 ai 20 ettolitri e una bottiglieria capace di contenere 50.000 bottiglie.
Nei vigneti bassi impiantati nel corso degli anni si coltivavano i seguenti vitigni: fra i rossi ,Sangiovese, Canaiolo o Cagnina, Malbek,Cabernet, Verdot; tra i bianchi ,Biancale, Trebbiano, Sauvignon.
La produzione vinicola della Tenuta, a fine ‘800 ,era già diventata famosa, era la più importante del versante adriatico e veniva venduta sia sul mercato interno che all’estero in Paesi come le Indie Olandesi, in Svizzera, in Germania e in Brasile.
Inoltre, famoso e apprezzato era lo spumante prodotto con uve bianche selezionate , lo “Champagne La Tour”, del quale era grande estimatore il poeta Giovanni Pascoli, che se ne faceva spedire alcune casse ogni anno,in ogni città dove era chiamato ad insegnare.

martedì 14 settembre 2010

La tessitura a telaio manuale.


Ancora fin verso la prima guerra mondiale, in quasi tutte le case coloniche romagnole si praticava la tessitura a telaio manuale, un’attività esclusivamente femminile,nella quale le donne mostravano la loro abilità e fantasia tessendo per la famiglia coperte, tela per biancheria e stoffe per camicie e vestiti .
Strumento per la tessitura era il maestoso e pesante telaio orizzontale di legno che in alcune case più ampie era alloggiato in una stanza apposita, “ la cambra de tlèr”, a pianterreno,altrimenti si smontava a fine inverno custodendolo in cantina e si rimontava nella grande cucina al momento opportuno.
Infatti alla tessitura erano per lo più dedicati i mesi della cattiva stagione e per tutto l’inverno le donne filavano, dipanavano e tessevano aiutate dalle figlie ancora bambine, che imparavano così questa arte secolare.
Nel 1900, secondo i dati raccolti dal Ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio del tempo, erano attivi nella provincia di Forlì ben 6641 telai manuali casalinghi.
Quanto alle materie prime impiegate, lino e canapa erano quelle più usate, soprattutto la canapa, coltivata in tutti i poderi mezzadrili della Romagna ,che da sola alimentava il lavoro di migliaia di telai.
La parte di canapa ad uso padronale veniva venduta grezza :intere partite prendevano la via dell’Inghilterra per fabbricare le vele delle sue navi mercantili.
La parte che spettava al mezzadro ,invece,veniva quasi esclusivamente tessuta e usata per le necessità famigliari e solo alcune famiglie più laboriose o bisognose tessevano per il mercato locale: tela grezza per le vele dell’Adriatico, per i sacchi del grano, per il rigatino con il quale si confezionavano vestiti da lavoro.
Col telaio manuale si otteneva una tela di una determinata larghezza , dai 60 agli 80 cm.,mentre la lunghezza praticamente non aveva limiti,anche se i “Torselli”, i rotoli tessuti , misuravano di solito dai 20 ai 40 metri e più ,e per fare i lenzuoli si dovevano cucire i teli appaiati con un punto spina piatto fittissimo e molto resistente.
La tela però, una volta finita, richiedeva un’ulteriore fatica, doveva essere sbiancata: durante l’estate ,allora,in più riprese,i rotoli si lavavano nel ranno caldo con la cenere, si portavano a sciacquare al fiume e si stendevano in lunghe file al sole, finchè la tela diventava bianca bianca,di un “ biènc scanadè” , cioè rilucente e splendente , orgoglio di ogni arzdòra che si rispetti e requisito indispensabile anche per i capi del corredo più povero.

giovedì 9 settembre 2010

Conseguenze della pellagra, malattia della miseria.


La diffusione del mais come alimento di base, provocò l’insorgere di una tremenda malattia da carenza nutrizionale chiamata pellagra.
In Italia, soprattutto nelle zone settentrionali e appenniniche , colpiva in maggioranza i contadini e i braccianti : già nel 1830 in Lombardia vi erano più di 20.000 pellagrosi, che nel 1856 superavano i 38.000 ;fra il 1887 e il 1910 causò 86.000decessi ufficiali e altri 20.000 tra il 1920 e il 1940.
Senza contare l’aumento dei casi di pazzia , a cui questa malattia portava, tanto che alla fine dell’800, nel manicomio femminile di Venezia su 500 ricoverate più di due terzi lo erano a causa della pellagra.
In sostanza era una malattia della miseria e del cattivo cibo, soprattutto per l’esclusivo e insufficiente consumo di polenta e acqua, e quest’ultima non sempre sana e potabile.
A peggiorare le cose , la polenta era spesso fatta con granoturco guasto dall’umidità per mancanza di forni per l’essicamento e di ventilatori , e quindi fermentato o addirittura germogliato in depositi mal riparati.
Duro lavoro per 10, 12 ,a volte 14 ore al giorno ,cibarsi poco e male con prevalenza di polenta mattina, mezzogiorno e sera quando andava bene ,abitare case fredde e malsane, portava in gran numero ad ammalarsi e spesso a morire all’ospedale dei pazzi.
La pellagra è una malattia lenta e lunga, con sintomi che durano alcuni mesi e che ripetendosi di continuo esauriscono il malato irreparabilmente con dolore al capo e alla schiena , formicolio alle estremità, bruciore allo stomaco, calo della vista e dell’udito, tremori alle articolazioni.
Insomma, dietro alla pellagra stava una profonda miseria e una drammatica questione sociale, che portò via via all’aumento progressivo dell’emigrazione di famiglie intere di disperati, che cercavano all’estero una migliore speranza di vita.