mercoledì 15 dicembre 2010

La cucina dell'azdòra dal lunedì al sabato.



La cucina contadina tradizionale Romagnola ,che oggi tutti conoscono e che riempie libri e trattati di cucina, non è altro che la raccolta dei cibi delle feste, che solo in quei giorni si mangiava la carne arrosto, o la gallina in brodo, o la pasta al forno, o i cappelletti o il prosciutto e la ciambella.
Del cibo di tutti i giorni poco sappiamo se non quello che ci raccontano i nostri nonni che non fanno altro se non rammentarci la grande miseria e la grande fame che non li abbandonava mai.
Della cucina Romagnola feriale, “d’indè” , come si dice nel nostro dialetto,ne parla e ne descrive le caratteristiche Grazia Bravetti Magnoni ( l’ideatrice di questo blog), nel suo libro “ La cucina dell’arzdora”, ora giunto alla V edizione .
La cucina feriale contadina, scrive Grazia,era abbondante solo nei periodi dei grandi lavori, del raccolto e della battitura del grano e della vendemmia , quando il lavoro era pesante e si faticava da “un buio all’altro”, negli altri periodi tutto diventava di pura sopravvivenza.
D’inverno , soprattutto da novembre a febbraio, le famiglie che consumavano tre pasti al giorno si potevano contare, perché quasi la totalità dei contadini e dei braccianti si riuniva a tavola solo al mattino tra le 9 e le 10 per la colazione e verso sera , alle 5, per cenare.
Il più delle volte per colazione l’arzdòra metteva in tavola la polenta, condita con cipolla e pancetta o con sugo di fagioli ed era già una bella mangiata, perché a volte c’era solo pane secco ,che gli uomini ammollavano nel vino allungato con l’acqua,con una fetta di pancetta o un pezzetto di aringa affumicata ad insaporire verze o cavoli.
Se invece passava per le case la pescivendola con la sua cassetta del pesce legata alla bicicletta, si potevano comprare ogni tanto”poverazze” o “murscioni” o “saraghine”per poco o preferibilmente in cambio di qualche uovo .
La cena poteva essere più varia ma raramente più abbondante ed era sempre piatto unico: fagioli “schietti” nei quali inzuppare il pane o la piada, radicchi e cipolla, verze con dei pezzetti di salsiccia, patate in umido, maltagliati con ceci o con i fagioli ,“lunghèt” e “zavardòuni”senza uova” , poche fettine di formaggio con la piadina, erbe di campagna o baccalà che era già un lusso.
Il pane si cuoceva una volta alla settimana o anche due e in molte famiglie era conservato sotto chiave, le uova si consumavano raramente, perlopiù servivano da vendere o da barattare in cambio di sapone, olio o zucchero per la famiglia, e anche la carne del maiale veniva conservata e razionata con attenzione .
Solo per le feste e nei periodi di raccolto sulle tavole appariva la gallina in brodo, il prosciutto, le tagliatelle all’uovo o il coniglio arrosto.
Per il resto,e fino agli anni cinquanta, era sostanzialmente un regime alimentare povero tutto basato sulla pura sussistenza e su una stretta economia.

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