venerdì 28 gennaio 2011

Ma...siamo in Romagna!



Gennaio è sempre stato mese di oroscopo, riti augurali propiziatori, di usanze indimenticate di calendari e strologamenti.
Anche se non è più tempo di veglie ,” di trebb”,di tradizioni antiche , e se il lunario rurale non ha più quel rispetto tradizionale di un tempo.
La vecchia Romagna delle antiche costumanze è stata sopraffatta dai tempi incalzanti e dal continuo mutamento.
Ma…siamo in Romagna, e c’è chi insiste caparbiamente a non volersi arrendere , neanche all’evidenza.
A proposito del ma, scrive Valeria Vicari, vecchia penna arguta, c’è un detto che recita: “chi dice ma, cuor contento non ha “,infatti è un voler contraddire a tutti i costi.
E il romagnolo verace si contraddice e se ne vanta : “sono vivo, solo i morti sanno essere coerenti,per forza…, pataca!”.
Da sempre il romagnolo si mostra, si racconta, si difende con fierezza e con baldanza: sono romagnolo e basta!.
Vecchi personaggi ormai desueti, che, più che altro, fanno tenerezza per la tenacia con cui difendono certi luoghi comuni ormai sorpassati.

giovedì 20 gennaio 2011

Pellegrino Artusi e la Romagna.



“La migliore salsa che possiate offrire ai vostri invitati è un buon viso e una schietta cordialità.
Brillat Savarin diceva che invitare qualcuno è lo stesso che incaricarsi della sua felicità per tutto il tempo che dimora sotto il vostro tetto “.
Questa era l’idea dell’ospitalità di Pellegrino Artusi.

Nato a Forlimpopoli il 4 agosto 1820 da ricca famiglia borghese , Pellegrino se ne allontanerà in seguito alla brutta esperienza vissuta la notte del 23 gennaio 1851, quando la sua casa fu invasa e saccheggiata dalla banda del Passatore.
Così l’Artusi , “Buratèl” per i compaesani, secondo l’abitudine dei romagnoli di affibbiare a tutti un soprannome, si trasferì nella ricca e più tranquilla Firenze.
Qui , grazie all’apertura di “un banco di sconto” raggiunse una importante posizione sociale ed economica e si accinse a vivere per il meglio .
A sessant’anni suonati, preso dall’amore per i fornelli,comincerà a raccogliere e sperimentare di persona ricette delle varie cucine regionali:ricette che raccolte poi ne “ La scienza in cucina” gli daranno la fama.
E la Romagna?
Malgrado la storia del Passatore, ne avrà sempre nostalgia, la conserva nel cuore, nel sangue e nel palato.
Come quando ,parlando della “Minestra a due colori”,egli dice trattarsi di “un piatto delicato e leggiero, che può piacere in Toscana…ma che non sarebbe da presentare ad un pranzo in Romagna, ove il morbidume sotto i denti non è punto del gusto di quel paese”.
E il termine “morbidume” indica chiaramente che “lui” la pensa come noi.

mercoledì 19 gennaio 2011

"Viazè " di Raffaello Baldini


Una spettacolare poesia di Raffaello Baldini:


VIAZE’

“Mo viaza tè,mè a stag bèn do ch’a so,
ch’i vèn da fura, aquè,pu u i è Suièn,
Vròcc, la Pargàia ,ch’a n ‘i so mai stè
ma la Pargàia, gnenca tè? Mo ‘lòura
csa vèt zarchè vaièun, che me sno e’ lèt
furistir, e’ cuschi, che sa n’ò e’ mèi,
pu tòtt, t vè vèa se sòul, t’arèiv ch’e’ piòv
ta n cnòss niscèun, u t tòcca dmandè sèmpra
e al gambi quand l’è nòta ,vdài e’ mond?

Che dòp t ci piò pataca ca ne prèima,
mo me u m pis ènca i pòst ch’u n suzèd gnènt.
A cal zò te Mareccia,
un slèrg,t,vè do ch’u t pèr, e tott chi sas,
mo u i n’è ch’à di culèur,
i lèus,sott’aqua, quèstil’è al zità!
O a so balengh? E piò in là do burdèli
s’un gran maz ad fièur zal ,al rèid, al còrr,
a pi nèud,sòura i sas, mo cmè ch’al fa?”



Ma viaggia tu,io sto bene dove sono/che vengono da fuori, qui,poi c’è Sogliano/
Verucchio, Perticara;che non ci sono mai stato/a Perticara, neanche tu? Ma allora/
Cosa vai a cercare in giro, che io, solo il letto/forestiero,il cuscino,che se non ho il mio/
Poi tutto,vai via col sole, arrivi ce piove/non conosci nessuno, devi sempre chiedere,/
E le gambe, quand’è notte, vedere il mondo?/Che dopo sei più coglione di prima?/
Ma a me piacciono anche i posti dove non succede niente, calo giù nel Marecchia/
Uno slargo,vai dove ti pare, e tutti quei sassi /ma ce n’è che hanno dei colori,/
Rilucono, sott’acqua, queste sono le città!/O sono balengo? E più in là due bambine/
Con un gran mazzo di fiori gialli ridono, corrono,/a piedi nudi, sui sassi, ma come fanno?

sabato 15 gennaio 2011

La festa di Sant'Antonio Abate


In Romagna la festa di S. Antonio Abate è ancora molto sentita, e la fede che i contadini hanno sempre avuto per questo Santo è davvero singolare, tanto che – dice il Tonelli – un tempo durante il Rosario della sera non mancava mai “ E’ patèr ma Sant’Antòni dal bes-ci” , che finiva per diventare il Santo numero uno della famiglia contadina.
Sant’Antonio è il protettore della stalla e degli animali e il suo animale per eccellenza è il maiale, un tempo importantissimo nell’economia e nell’alimentazione della Padania e dell’italia settentrionale.
L’immagine del Santo , poi, era immancabile nelle stalle e nei porcili e questi santini andavano affissi in modo che “vedessero” bene gli animali da custodire e , ogni anno, nella ricorrenza del 17 gennaio, venivano sostituiti da corrispondenti immagini nuove ,mentre le vecchie venivano bruciate per evitare il “sacrilegio” di lasciarle in giro, per terra.
Nel giorno della festa di Sant’Antonio il prete passava a benedire stalle e animali ,o gli animali stessi erano condotti sui sagrati delle chiese per ricevere la benedizione e i pani benedetti.
Oggi ancora è tradizione portare gli animali a”benedire” ,ma sono per lo più animali domestici ,cani e gatti infiocchettati ,ma anche uccellini e tartarughe.

lunedì 10 gennaio 2011

Tonino Guerra e i suoi versi in dialetto.



Questa è un’altra bella e malinconica poesia di Tonino Guerra nel suo dialetto Santarcangiolese :

La mòrta. ( la morte)

Mu me la mòrta
L’a m fa una pavèura che mai
Ch’u s lasa tròpa roba ch’l’a n s vaid piò:
i amèig,la tu famèia,
al piènti de’ pasègg ch’a gli à cl’udòur,
la zènta te incuntrè una vòlta snò.

A vrèa murèi d’inveran quand che piov
ch’u s fa la saira prest,
e d’fura u s sporca al scherpi t’e’ pantèn
e u i è la zènta cèusa ti cafè
datonda ma la stòva.



A me la morte /fa una gran paura/ perché si lasciano troppe cose che non si vedono più/: gli amici, la famiglia,/le piante del viale che hanno quel profumo/ e la gente che hai visto una volta sola./
Io vorrei morire d’inverno quando piove/quando si fa sera presto/ e fuori ci si sporca le scarpe nel pantano/e c’è la gente chiusa nei caffè/ intorno alla stufa:

mercoledì 5 gennaio 2011

La questua dell'Epifania e i Pasquaroli.


All’inizio del mese di gennaio si festeggia Madre Natura che nella tradizione assume le sembianze di una vecchia e benevola strega a cavallo di una scopa : la Befana.
La Befana, che appare nella dodicesima notte dopo Natale, alla fine del periodo di transizione fra il vecchio e il nuovo anno,è un’immagine di Madre Natura che, giunta alla fine dell’anno invecchiata e rinsecchita ,assume le sembianze appunto di una befana,di una cosa vecchia da segare e bruciare .
Ma prima di morire offre dolciumi e regalini che altro non sono se non i semi grazie ai quali riapparirà rinata in primavera.
Un tempo era molto diffuso in Romagna e in diverse zone italiane il rito della “Pasquella”,eseguito la sera della vigilia e la notte dell’Epifania da gruppi costituiti da canterini e suonatori che passavano per le case dei paesi e delle campagne dove erano invitati ad entrare a bere e mangiare e ai quali si regalavano uova, formaggi , salsicce ecc…..
La più antica testimonianza riguardante i canti della Pasquella è contenuta nel resoconto del Dipartimento del Rubicone che riassume i dati dell’inchiesta del 1811sulle costumanze popolari nel Regno Italico:” Nel giorno dell’Epifania i contadini vanno in giro di casa in casa a cantare la “Beffana”,per avere o formaggio o uova o cose simili”.
I Pasquaroli avevano vari repertori, alcune di queste cante cominciavano così:

“ Da lontano abbiam saputo
che ammazzato il porco avete,
qualche cosa ci darete:
o salsiccia o mortadella.
Viva viva la Pasquella!”
Ecc….

Oppure….

“Riveriamo a lor signori
domandiamo la licenza
per suonare per cantare,
per istare in allegria.
Viva Pasqua Epifania!”

Per finire poi:

Rivederci a quest’altr’anno
quest’altr’anno se siam vivi,
alla bella compagnia
buona Pasqua Epifania!

domenica 2 gennaio 2011

Le uova nella campagna appena ieri.


Un tempo le famiglie contadine si industriavano molto nell’allevamento dei polli e delle galline
ovaiole:era un compito che spettava quasi sempre all’”azdoura” di casa, che aveva il totale comando sugli animali ruspanti del pollaio.
Era questo un lavoro importante, perché c’era da far fronte sia alle esigenze familiari sia ai periodici censi padronali in uova e polli definiti dal contratto mezzadrile , quantitativamente differenziati a seconda dell’ampiezza del podere.
Di solito , oltre al paio di capponi a Natale, c’era il paio di galletti a Pasqua e per la trebbiatura e le 100 e più uova nel corso dell’anno, senza contare le regalie all’eventuale fattore e al prete che “passava a benedire” nel periodo pasquale.
Normalmente con una quindicina di galline ovaiole si riusciva a far fronte a tutte queste esigenze e anche a destinare qualche uovo alla vendita per raggranellare quei soldi che servivano per acquistare sale, zucchero ,bicarbonato, olio e quant’altro poteva abbisognare per la casa.
La mia bisnonna riuscì in questo modo a mandare avanti la famiglia senza dover chiedere troppo spesso i soldi al marito e per sicurezza teneva il cestino con le uova ben nascosto sotto il letto o nell’armadio chiuso a chiave.
Per ovviare all’inconveniente di rimanere senza uova nei mesi invernali nei quali le galline non ne deponevano o ne producevano in numero insufficiente, da maggio-giugno si mettevano sotto la calce e si conservavano perfettamente, anche se erano adatte per lo più per fare la sfoglia.
Era un procedimento semplice: si faceva sciogliere la calce nell’acqua mescolando bene, poi si lasciava riposare in modo che la calce si deponesse sul fondo e intanto si mettevano le uova uno sopra l’altro in un piccolo orcio di terracotta smaltata versandovi sopra l’acqua di calce così ottenuta.
La mia bisnonna e la mia nonna molte volte hanno messo in tavola la minestra di “sfoglia matta”, senza uova, per risparmiarle e venderle al mercato ,ma anche se era un sacrificio,era l’unico modo a quei tempi,per le donne,di poter comprare quei generi necessari che la campagna non dava.