venerdì 25 febbraio 2011

"LOM A MERZ" e "LA CANUCERA"



La primavera viene il 21 marzo, ma per i contadini una volta arrivava già ai primi di marzo: in quella data non c’era più bisogno di scaldare il letto e già si cominciava ad andare scalzi.
Gli ultimi tre giorni di febbraio e i primi tre di marzo erano i giorni dei fuochi per fare “Lom a mèrz”, lume a marzo, per propiziarsi la buona stagione.
Il fuoco è un forte simbolo di rinascita e le grandi focarine si facevano per svegliare la vita della campagna dopo il lungo letargo invernale e per placare marzo pazzerello .
Le focarine erano un avvenimento che coinvolgeva tutti , si ammucchiavano sterpaglie e resti di potature ,ogni cosa era buona per quelle sere e attorno ai falò si ballava e si cantavano ritornelli che auspicavano il buon raccolto.
Nel riminese si cantava:
Lom a mèrz, lom a mèrz,
una spiga fàza un bèrch,
un bèrch, un barcaròl
una spiga un quartaròl,
un bèrch, una barchèta,
tri quatrèn una malèta.

Lume a marzo, lume a marzo,/una spiga faccia una bica/,
una bica, una bichetta/,una spiga un quartarolo/,
una bica una bichetta,/ tre quattrini una sacchetta.

I falò di marzo in origine sancivano probabilmente un capodanno della natura, la fine dell’anno vecchio e l’avvento di quello nuovo e bruciavano così il tempo passato ormai infruttifero, salutando la nuova stagione : infatti nell’Antica Roma e presso altre popolazioni antiche l’anno cominciava il primo marzo.

Questi giorni dei lumi a marzo coincidono anche con i “Dè dla canucèra” nei quali, secondo la tradizione, -vi è un’ora infausta, che però nessuno sa quale sia, che farà riuscire male tutto- a causa di un influsso misterioso: la Canucèra, appunto.
Per questo un tempo i contadini si astenevano dal fare lavori nei campi per non incorrere in questa evenienza e si sbrigavano solo quelle faccende che erano indispensabili.

mercoledì 23 febbraio 2011

1878-1883 inchiesta Jacini sulle condizioni della classe agricola.



Il 7 giugno 1872, il senatore e medico Agostino Bertani fece un lungo e appassionato discorso alla Camera per mettere in rilievo le gravi e disperate condizioni della classe contadina italiana , peggiorate dalle nuove tasse e dai metodi assenteisti dei proprietari terrieri che spogliavano anno dopo anno la terra ,senza reinvestirne alcuna ricchezza.
Il suo ordine del giorno recitava:
“I sottoscritti propongono alla Camera che, ispirandosi alla giustizia, all’opportunità, alla prudenza ,e riconoscendo doversi riparare i danni che il disagio della numerosa classe agricola può cagionare all’ordine sociale, voglia deliberare una inchiesta sulle condizioni attuali della classe agricola e principalmente dei lavoratori della terra in Italia”.
Questa proposta fu accolta solo cinque anni dopo, quando la Sinistra -capeggiata da Depretis- era ormai al Governo.
Affidata a una commissione parlamentare presieduta dal conte Stefano Jacini, conservatore, l’inchiesta fu conclusa nel 1883.
Ne uscì un lavoro superficiale ,contenente dati incompleti, spesso inficiati dalla interpretazione ottimistica e paternalistica dei proprietari agricoli che detenevano spesso il potere municipale.
Comunque , l’inchiesta Jacini contribuì almeno alla conoscenza di questo mondo e diede un triste quadro sulle condizioni di vita dei contadini.
Al tempo dell’unità d’Italia, i quattro quinti degli operai italiani erano lavoratori della campagna, divisi tra affittuari,mezzadri, operai e braccianti avventizi.
Ovunque, dalla Sicilia alla Lombardia, regna miseria,carestia,usura, pellagra, abbrutimento,analfabetismo e disperazione.
Nell’alimentazione prevale il granturco sul frumento ,la carne solo per le feste e, a causa della tassa sul macinato ,che assorbì parte dei mezzi prima disponibi, in certi luoghi divenne persino difficile comprare il sale .
Se il mezzadro e il fittavolo riescono a mangiare un uovo ogni tanto e a far bollire una gallina, il vitto del bracciante viene descritto sovente con la seguente durissima formula:”Polenta e acqua”.
Ma i mezzadri sono quasi ovunque in debito coi padroni e le abitazioni sono in genere anguste e in cattive condizioni, con finestre senza vetri , quando non sono che capanne di canne e terra battuta.
Grande disagio e risentimento causano frequenti rivolte contadine nell’Italia Meridionale e un po’ovunque i contadini gridano contro il nuovo Governo.
Il malcontento,intanto ,orienta le masse, nelle varie regioni, verso i partiti in esse prevalenti: in molte zone del nord verso il socialismo, nel napoletano verso la camorra e in Sicilia verso la mafia e il brigantaggio.

venerdì 18 febbraio 2011

L'annessione delle Romagne al Regno d'Italia.


Il 21 giugno 1859 in Romagna viene abbassata la bandiera Pontificia e sui Palazzi Comunali,viene innalzato il tricolore.
Il 24 settembre 1859 Re Vittorio Emanuele accoglie l’annessione delle Romagne, come si diceva ancora allora, al plurale, dato che era una provincia formata da quattro Legazioni.
La maggior parte della popolazione soprattutto i lavoratori della campagna, non sapeva neppure cosa potesse significare , e tra quelli che avevano afferrato lo straordinario avvenimento, pochi ne capivano la portata .
La Romagna era terra calda e ribelle ,dove la miseria dei contadini,l’odio di classe accumulato per generazioni, i fermenti politici, creavano una miscela esplosiva per l’ordine pubblico, mentre bande di briganti o anche semplici famiglie erano abituate a regolare le cose con il fucile ma soprattutto con il coltello:nel triennio 1856-1859 nelle quattro Legazioni di Romagna si contano ben tremila aggressioni a coltellate.
Con l’annessione ai Savoia,ai preti, nelle Chiese ,si ordina di cantare un Te Deum di ringraziamento e di esultanza, ma il Vescovo Enrico , della Diocesi di Cesena ,si oppone , tuonando contro” le false, perverse e anticristiane idee, che i nemici della Religione spargono in questo tempo”.
Alcuni preti più ostinati a non officiare la celebrazione vengono addirittura tradotti in prigione dai carabinieri.
Ma ormai il nuovo Stato era nato ,il 18 febbraio 1861ha luogo la prima convocazione del Parlamento Italiano, il 17 marzo Vittorio Emanuele II viene proclamato Re d’Italia e entro la fine dell’anno si tiene il primo censimento generale del nuovo Stato: la nostra Regione contava 2.084.000 abitanti.

lunedì 14 febbraio 2011

Le conserve "neviere".



Un tempo non c’erano frigoriferi e celle refrigeranti per conservare la carne e i materiali deperibili, così la maggior parte dei paesi si fabbricava una “conserva”neviera adatta a questo scopo.
Era una specie di grotta sotterranea ,nella quale si entrava da una galleria in fondo alla quale si apriva una porta che dava su un grande vano a forma di salvadanaio.
A San Mauro la conserva la chiamavano “La Muntilaza”, perché formava un piccolo rialzo nel terreno , ricoperto da un boschetto di marruche, i “marugheun”.
Secondo la descrizione del macellaio Ezio Maioli,che vi conservava gli animali macellati, questa conserva aveva le pareti di pietra e il soffitto a cupola con un anello al quale si attaccava il paranco per far salire e scendere i pezzi grossi di carne.
L’altezza del vano era di 4 metri circa, l’ampiezza di 20 e conteneva fino a 200 birocci di neve.
Tutti gli anni si sperava che nevicasse abbastanza per riempirla di neve o ghiaccio, quest’ultimo trasportato dai birocciai dalle valli del Ravennate, altrimenti la neve si portava giù nei sacchi dal monte Carpegna sui carri trainati dai buoi , e non poche volte arrivava sciolta e inutilizzabile.
L’inverno tra il 1903-1904 fu così mite che non nevicò e diversi paesi dovettero andare a prendere la neve a San Marino pagando 5 lire per ogni carro ,causando un esborso notevole per le finanze comunali.
La neve veniva subito messa nella conserva e ben battuta in modo da formare come una chiocciola intorno alle pareti , poi la si copriva con un’erba , l’”Erba Brujòina” che veniva raccolta nelle Valli di Comacchio e sopra , coperta da teli ,si metteva la carne macellata.
La neve in questo modo si poteva mantenere per tutta l’estate fino alla fine di settembre e a mano a mano che si scioglieva l’acqua che si formava veniva raccolta nel fondo fatto a fiasca e tramite una botola scaricata in una fossa esterna.
E ogni inverno si ricominciava……

giovedì 10 febbraio 2011

La maschera di "Fasulèn".



La maschera di Fagiolino, “Fasulèn” ,è il personaggio più tipico e più amato del Carnevale Romagnolo.
Fagiolino è anche il protagonista più popolare del Teatro dei burattini della nostra Regione, quello che impersona il monello, il “ birichìn”, il dispettoso molestatore,compagno di avventure di Sandrone, altra maschera locale.
E’ una maschera impertinente, Fagiolino, è un povero generoso coi deboli ma severo e indisponente con i cattivi ,insomma, la sua missione è quella di farsi giustizia da solo,punendo i bricconi battendoli col suo bastone nodoso, indivisibile compagno di avventure.

lunedì 7 febbraio 2011

Carnevale in Romagna nel 1828


Durante il Carnevale del lontano 1828, a Santarcangelo di Romagna,secondo la cronaca del protocollista comunale Elia Gallavotti :
“Si vide per l’ultima volta il barbaro spettacolo della –Caccia al Bue- in questa città, e precisamente nel Borgo Malmignati.
Si chiudeva il Borgo stesso con palco un per gli spettatori nelle due estremità, ed in mezzo si collocava un tino per la salvezza dei lottatori.
Coi suddetti due palchi e le finestre di quelle abitazioni si formava un vero anfiteatro per gli astanti, ma siccome questo pubblico divertimento era troppo pericoloso, che si vedeva assai di frequente compromessa l’esistenza di chi era addetto alla ferma del toro o del bue, venne dichiarato dalle Autorità che non si sarebbe più rinnovato.
L’’assalto al toro veniva dato con l’aiuto dei cani , diversi dei quali venivano feriti dalle corna acuminate e morivano irreparabilmente in pochissimo tempo.
Per la smania di conseguire il premio e poter dire che il proprio cane era il migliore, ne compromettevano l’esistenza e il pubblico ormai negli ultimi tempi si ritirava,piuttosto che essere spettatore di simile carneficina.
Se un cane poteva afferrare coi denti un’orecchia del toro e fermarlo,oltre a che il padrone del medesimo riceveva il premio di 200 lire, veniva applaudito dal pubblico e il cane avrebbe aumentato il suo prezzo, diventando ricercatissimo”

Così viene descritta l’ultima Caccia al Toro del nostro circondario, durante il Carnevale del 1828, Carnevale interrotto dalla morte del Papa ,Leone XII, a causa della quale furono interrotti i divertimenti e chiusi anche tutti i Teatri. Al Papa defunto i Romani dedicarono la seguente satira:

“Tre sbagli facesti,Padre Santo,
accettare il papato e viver tanto,
morir di Carnevale per esser pianto”.

venerdì 4 febbraio 2011

4 FEBBRAIO,FESTA DELLA MADONNA DEL FUOCO


Oggi 4 febbraio è la festa della Madonna del Fuoco.

E’ questa una festa del nostro territorio, della zona del forlivese, che deriva dal lontano anno 1428, quando a Forlì,tra le ceneri di un incendio che distrusse una casa si trovò un’ immagine della Madonna ancora intatta.
Da quella volta la” Madonna del Fuoco”, come venne chiamata , divenne la protettrice di vari mestieri che avevano a che fare con il rischio di incendi,e da noi , a San Mauro e nei dintorni, un tempo grandi produttori di canapa, era molto venerata e aveva un altare tutto suo nella Chiesa del paese.
Nella sera precedente la ricorrenza della Madonna del Fuoco,in tutta la Romagna si accendevano falò in segno di devozione ,si mettevano lumini alle finestre e si sparavano colpi di fucile in aria .
Attorno ai falò si ballava e si cantava una canzoncina che ,pur simile,aveva diverse versioni,cambiando da zona a zona:


Allegèza, allegrèza,
Madona benedèta.
Madona da Furlè,
e piò allegrèza ancora a mè.


Ligrèza, ligrèza,
Brasul e sanzeza,
ligrèza ligrèza,
fasìm na carèza…

Un proverbio invece ci avvisa che per la festa della Madonna del Fuoco le giornate si sono allungate ,infatti:

“Par la Madona,un’oura bòna “.

mercoledì 2 febbraio 2011

LA CANDELORA


La ricorrenza liturgica della Presentazione del Signore e della Purificazione di Maria è detta anche Candelora, perché vi si benedivano e distribuivano ai fedeli le candele a cui il popolo attribuiva particolari poteri , destinandole a scongiurare temporali e a consolare agonie.

E’ una festa celebrativa che si inserisce in ripetute scansioni di quaranta giorni (quaresime, quarantene),infatti quaranta sono i giorni da Natale alla Candelora e quaranta sono i giorni sui quali
influisce , come ci dicono i tanti proverbi, spesso contrastanti fra di loro:


Se e’ bat e’ soul per la Candilora,
quarenta dè a n’avem ancora.



Par Senta Mari Candela,
o che piov o che met neva
o che tira un vent che pela;
o se l’è bela zurnèda
quarenta dè e piò ad’invarnèda



Par la Candilora,
che sia nòiva o che piova
da l’inveran siamo fora;
e se e’ stà e’ sulatel
u i n’è ancoura un misarel.



Se e’ piov par la Zariola
quaranta dè d’inveran u s’arnòva.