lunedì 28 marzo 2011

L'ALMANACCO di GRAZIA.



“Siamo in televisione”….o meglio, “Grazia è in televisione!”.
Oltre a tutti i viaggi, i lavori e i vari impegni che tengono Grazia lontana dal Blog, ora ci si è messa anche la televisione: ogni settimana condurrà una rubrica su tradizioni, usanze, detti e proverbi romagnoli sull’emittente locale riminese Icaro TV.
L’Almanacco di Grazia va in onda tutti i mercoledì alle ore 20.35 e in replica la domenica alle ore 20.00.
E’ certamente una bella iniziativa, interessante soprattutto per i giovani e per tutti quelli che le nostre radici se le sono dimenticate troppo presto.
Grazia si augura che diventi un appuntamento fisso e piacevole da seguire settimana dopo settimana ,un almanacco che possa scandire i mesi e le stagioni grazie ai saperi tramandati dalle generazioni dei nostri vecchi e ancora validi e attuali .
Se qualcuno avesse notizie, consigli, ricordi e…osservazioni, Grazia sarebbe ben lieta al confronto e al dialogo,così da rendere la rubrica un grande racconto corale.
Grazia, in bocca al lupo e buon lavoro!!!

mercoledì 23 marzo 2011

IL TAGLIO DEL FIENO.



Uno dei lavori di campagna riservato unicamente agli uomini era quello del taglio del fieno.
Naturalmente anche le donne partecipavano, ma il loro compito era esclusivamente quello di passare dopo il taglio per ammucchiare l’erba tagliata e rivoltarla perché si asciugasse al sole, il compito di maneggiare la grande falce fienaia era roba da uomini.
“E’ sgadòur da fèn” aveva pochi attrezzi: la “fèra”- la falce fienaia-,un cavicchio di ferro con la testa schiacciata , la “padrèla”-la cote di pietra-, e un martello.
Prima di cominciare il lavoro piantava il cavicchio in terra,che quattro riccioli sporgenti tenevano alla giusta altezza , si sedeva a gambe larghe e col martello cominciava a battere la lama della falce sulla capocchia del cavicchio come fosse una piccola incudine.
Ci voleva molta abilità per battere la fèra, -a bàt e’ fèr”-: il taglio doveva essere affilato uniformemente a piccoli colpi, lungo tutta la lama,per poi passarci velocemente su e giù la padrèla, bagnata d’acqua o anche con uno sputacchio generoso….
I contadini, al tempo del taglio del fieno ,si organizzavano tra vicini e un giorno l’erba veniva tagliata da uno, un giorno da un altro ,ed erano sempre almeno una decina ,per finire il lavoro entro la giornata.
C’erano falciatori abilissimi e agili che avanzavano nel prato a larghe falcate, ed era uno spettacolo vedere come nascevano gare appassionate tra le squadre di lavoranti, con scommesse su chi arrivava prima alla fine del campo.
Quando si tagliava nei giorni buoni e caldi il fieno si seccava subito e veniva migliore,se invece prendeva la pioggia poi non si seccava mai bene , anneriva e alle bestie non piaceva più.

mercoledì 16 marzo 2011

I contadini e l'Unità d'Italia.


Lo Stato unitario nasceva ,ma i milioni di lavoratori rurali –il 65 per cento dei suoi abitanti- era alle prese con i soliti problemi della sopravvivenza quotidiana e dello stento del vivere.
Pellagra, tifo, tubercolosi ,alta mortalità infantile erano piaghe fin troppo evidenti.
Il disagio alimentare era estremo per la gran parte dei contadini,i quali consumavano carne solo nelle grandi occasioni festive e in molte regioni del nord si nutrivano quasi esclusivamente di mais.
Per non parlare dell’analfabetismo,che colpiva l’80 per cento degli italiani ,con punte superiori al 90 per cento al Sud, dove era totale tra i contadini.
Il mondo dei villani e degli zotici abitatori delle campagne appariva allora ai cittadini , nobili o borghesi o plebei che fossero, come un’insieme di inferiorità antropologica e quasi razziale.
E da parte sua il popolo della campagna nutriva da sempre odio e rancore verso il “padrone”,verso “l’autotità” e ora verso lo Stato “piemontese”che aveva introdotto una coscrizione obbligatoria assai pesante e aveva aggravato il carico fiscale.
Ma anche prima dell’Unità l’inerzia dei contadini e la loro poca passione politica era stata notata anche da Garibaldi, il quale lamentò più volte di non aver mai visto un contadino tra i suoi volontari.
Se i contadini non presero le armi per Garibaldi, le presero invece per aderire alle decine di bande di “briganti” ,perloppiù disertori,che si formarono un po’ in tutte le regioni, ma soprattutto nel Mezzogiorno , tra il 1861 e il 1865-1870.
Lo scontento del mondo contadino al principio del Regno d’Italia si manifestò anche con cantate e detti che sono durati a lungo nella memoria popolare.
Uno di questi, in dialetto romagnolo , recita così:

“ Sota e’ Pepa u s’digiunèva e u s’sviva;
Sota l’Austria u s’pativa ma u n’s’muriva;
Sota l’Italia ch’la guverna, requiem eterna”.

Sotto il Papa si digiunava e si sveniva/
sotto l’Austria si pativa ma non si moriva/
sotto l’Italia che governa, requiem eterna.

venerdì 11 marzo 2011

IL "FERRATORE "DI CAVALLI



Un lavoro che oggi resta confinato nei recinti degli ippodromi o in grandi allevamenti di cavalli è quello del maniscalco.
Ancora negli anni ’20 a Rimini erano attivi ben 6 maniscalchi, e nei giorni di mercato erano tutti sovraccarichi di lavoro : anche i contadini vi si fermavano perché magari nel viaggio verso la città il loro somaro aveva perduto un ferro che doveva essere riattaccato o farlo nuovo.
Nella buona stagione lavoravano all’aperto, nello spazio davanti alla bottega , riparandosi invece nell’interno durante l’inverno o nei giorni di pioggia.
Cavalli, muli e asini erano le bestie più frequenti ma anche i bovini dovevano essere ferrati, operazione questa di inferiore qualità; bastava preparare delle semplici piastre di ferro a mezzaluna da applicare sotto lo zoccolo fesso di vacche e buoi.
Invece gli zoccoli di cavalli e asini avevano ognuno la loro particolare forma e grandezza e il “fradòr” doveva preparare i ferri della giusta misura e inchiodarli con certi lunghi chiodi di ferro dolce che facevano sporgere lateralmente e poi ribattuti con cura.
Ci sono molte credenze popolari legate al ferro di cavallo usato, perduto per strada e trovato casualmente.
Inchiodare un ferro di cavallo o appenderlo a una parete di casa si crede porti fortuna e che sia un utile amuleto contro il malocchio,ancora meglio se viene decorato con un nastro rosso.

domenica 6 marzo 2011

LA LEVA OBBLIGATORIA DELL'ITALIA UNITA.



La prima leva del nuovo Stato italiano fu indetta nelle Romagne nel 1860: il 30 giugno il governo ottenne dal parlamento l’autorizzazione a effettuare la leva sui nati nel 1839, oltre che nelle “vecchie province”, anche in quelle romagnole appena annesse.
Dato che sotto la dominazione pontificia non ne andavano soggetti, la coscrizione fu un fenomeno subito mal tollerato e causò una rilevante e perdurante renitenza, soprattutto nei primi anni postunitari.
Dato che vi era un soprannumero di giovani,il sistema di reclutamento era basato sul sorteggio tra tutti quelli che avevano compiuto i 21 anni e dichiarati idonei alla leva ;tra questi solo una parte intraprendeva il servizio militare, gli altri, ugualmente idonei ma destinati alla seconda categoria ,entravano nella riserva.
La durata della ferma ,per gli arruolati nella prima categoria, era di undici anni, di cui cinque in servizio attivo e sei di congedo illimitato.
Per i più fortunati appartenenti alla riserva invece , il congedo arrivava subito, dopo soltanto quaranta giorni di addestramento sommario.
Una ferma minima di cinque anni era una tragedia soprattutto per le famiglie contadine che vedevano portarsi via braccia robuste al lavoro dei campi: nelle prime tre leve effettuate nel Forlivese , su un totale di 884 renitenti,ben 543 erano coloni o braccianti, molti dei quali si davano al brigantaggio.
Sempre nelle prime tre leve la percentuale dei disertori oscillò tra il 30 e il 50 per cento, toccando punte del 75 per cento nel Riminese.
E come sempre i poveri non avevano via d’uscita:o la coscrizione ,o, in caso di diserzione, la prigione fino a due anni e altri due anni di ferma supplementare.
Invece chi se lo poteva permettere , per legge poteva farsi sostituire dietro pagamento di una somma da un altro coscritto ,che faceva il servizio militare al suo posto.
Per i giovani del popolo non restava altro che o la diserzione, o simulare malattie o i tanti episodi di autolesionismo come la mutilazioni di dita dei piedi e delle mani o altre menomazioni.
Nei registri di leva di quegli anni,conservati nell’archivio del mio paese, ho rintracciato un mio avo, Domenico Benedetto ,babbo del mio bisnonno,della leva del 1845 ,che passa la visita per la coscrizione dell'anno 1866.
Accanto al suo nome poche note: professione colono, altezza mt. 1.65,riformato a “causa di una cattiva conformazione del torace”.
Penso con quanta gioia sia tornato a casa dai suoi, nel podere a mezzadria della grande Tenuta Torlonia , dai suoi genitori che avevano visto morire almeno sette figli e solo lui era sopravvissuto insieme a una sorella, lui che era nato quando suo padre aveva ormai 46 anni e per non dover lasciare il podere aveva dovuto assumere dei garzoni, uno dei quali poi diventerà il cognato di Domenico.
Uomini e vicende del tempo dell’Unità d’Italia……

giovedì 3 marzo 2011

LA GALLINA BOLLITA DEL PRANZO DELLA DOMENICA



Fino a qualche decennio fa, il pranzo della domenica,nella maggior parte delle case di campagna ,
vedeva come protagonista la gallina in brodo.
A questa pietanza spetta il primato su tutte,abbinata ai tagliolini o alle pappardelle fatte in casa - la “minestra” per eccellenza -cotti nel brodo dorato ,che tutti noi di campagna di una certa età ben conosciamo.
Era il segno della festa: la zuppiera fumante con la minestra al centro della tavola e la gallina bollita ben disposta a pezzetti nel grande piatto smaltato su cui si spargeva un pizzico di sale grosso appena schiacciato sul tagliere con una bottiglia di vetro.
Erano galline ben pasciute, allevate a granturco e pastone e ricordo come adesso mia nonna che ci metteva un sacco di tempo a prepararle, a pulirle, a togliere tutti gli “stronconi delle penne” perché si potesse mangiare anche la pelle, perché della gallina non si buttava niente.
Non si buttavano nemmeno i budelli, che mia nonna puliva con cura rivoltandoli con l’aiuto di un fuso e facendone dei nodini che erano una ghiottoneria ,come anche le zampe e il collo,il fegato e il “maghetto”,che solo chi ha mangiato la vera gallina ruspante sa apprezzare.
Per non parlare poi degli ovetti e dei piccoli grappoli di tuorli che spesso le galline avevano nella pancia: erano “loverie”destinate ai bambini.
Di solito una gallina con contorno di patate lesse o altre verdure bastava a saziare una famiglia , ma a volte si faceva l’aggiunta del “salame matto”, un polpettone a forma di salame fatto con uova, formaggio e pane grattugiato con odore di noce moscata e limone : era il sigillo del pranzo della festa.

martedì 1 marzo 2011

L' ACERO CAMPESTRE , PIANTA DI CAMPAGNA.



Una delle piante che per secoli ha servito fedelmente il contadino è l’acero campestre ,detto anche oppio, una delle sei varietà spontanee italiane del genere Acer tra le 150 che esistono in natura.
L’acero campestre deriva il nome dal suo utilizzo rurale, risalente a tempi antichissimi, come tutore vivo dei filari della vite, delle cosiddette “piantate”.
Quando ancora nelle nostre campagne la vite era coltivata a filari, ogni podere possedeva decine , centinaia di piante di oppio,- è con questo nome che è conosciuto in Romagna,- che oltre a sostenere le viti forniva foglie fresche per le bestie e grandi quantità di legna per il camino.
Il suo legno era usato anche per attrezzi agricoli, data la sua durezza e compattezza ed è pure con il legno di acero che venivano fabbricati i gioghi dei buoi.
L’oppio è una pianta resistente alle più drastiche potature, veniva infatti coltivato “a capitozzo” e ogni anno i rami si riformavano interamente.
Grandi esemplari di acero esistono ancora nei campi, chiari relitti di coltivazioni preesistenti e alcuni se ne vedono anche in prossimità di edifici rurali ai quali forniscono una fitta ombra.
Assieme all’olmo, purtroppo decimato dalla terribile “grafiosi”, l’oppio è l’albero più familiare del nostro paesaggio agrario italiano.